9.5
- Band: BATHORY
- Durata: 00:44:53
- Disponibile dal: 08/10/1988
- Etichetta:
- Under One Flag
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Oggigiorno, nel nostro ambiente, capita anche troppo spesso di imbattersi nella definizione ‘viking metal’, utilizzata il più delle volte a sproposito e in riferimento a formazioni e proposte musicali che, al di là di qualche tematica e qualche stereotipo di troppo, poco hanno a che spartire con quelle che sono le origini di questa etichetta, ormai sdoganata e scimmiottata al punto tale da diventare quasi pop, con tutti i fattori positivi e negativi che questo comporta.
Ebbene, le vere origini del viking metal risalgono al 1988, anno in cui una delle formazioni europee più seminali della Storia riuscì a rimaneggiare gli stilemi della propria Arte, inserendo al suo interno tematiche fortemente legate alla mitologia norrena e permettendo di fatto ai primi vagiti del suddetto filone di risuonare, seppur ancora fortemente incatenati al sound old-school black metal che tanto aveva reso popolare il primo trittico di opere a nome Bathory.
In verità, da un punto di vista puramente musicale, sarebbe più corretto dire che i suddetti stilemi sarebbero divenuti una realtà a se stante solo otto anni dopo, con quel “Blood On Ice” che molti considerano il primo autentico album viking metal a tutto tondo; tuttavia, sarebbe tremendamente superficiale dimenticarsi dei tre capolavori a base d’acciaio nero e sangue rosso usciti a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, e il primo di questi è proprio il leggendario “Blood Fire Death” che ora ci accingiamo a rievocare insieme a voi.
Il celebre dipinto di Peter Nicolai Arbo, raffigurante la cosiddetta Caccia Selvaggia, si rende primo vessillo di quello che sarebbe divenuto un tema ricorrente all’interno delle produzioni dei Bathory, il cui noto e compianto leader Thomas Forje Forsberg – in arte Quorthon – si sarebbe presto reso ancora più celebre che in precedenza, proprio grazie alla sua immensa cultura e affezione per tutto ciò che ruotava attorno ai miti nordici, senza dimenticare un comprovato disprezzo nei confronti del Cristianesimo, già ben manifestato nelle precedenti e diaboliche interazioni.
Dopo l’evocativa introduzione strumentale “Odens Ride Over Nordland”, ciò che si sprigiona dall’impianto stereo è un autentico concentrato di cultura, malvagità, intelletto ed estro battagliero, percepibili tanto nella musica quanto in alcune piccole trovate geniali: tra queste è impossibile non menzionare le menzioni agli scritti di Erica Jong e Robert Chambers, così come i messaggi subliminali inseriti in “The Golden Walls Of Heaven” e “Dies Irae”, in cui le iniziali di ogni verso formano rispettivamente la scritta ‘Satan’ e ‘Christ The Bastard Of Heaven’.
A livello strutturale, rispetto ai perfidi e blasfemi predecessori, in quest’album vengono inserite per la prima volta ben due lunghe suite – all’inizio e alla fine della tracklist – e viene percettibilmente raffinata la complessità generale delle composizioni, rendendone apparentemente meno immediata la fruizione, anche se è sufficiente aspettare il sopraggiungere dei primi, granitici riff e dell’ugola straziante di Quorthon per accorgersi che, anche con una dose minore di ignoranza, l’estro black metal della realtà svedese è sempre presente e tangibile. Non a caso, dopo la cadenzata e sanguinaria “A Fine Day To Die”, sopraggiungono immediatamente adrenalina e violenza in chiave speed metal in compagnia della sopracitata “The Golden Walls Of Heaven” e di “Peace ‘till Death”, le quali rappresentano ancor oggi la più pura manifestazione di ferocia e odio musicale, anche se con un senso di pseudo-raffinatezza ad emergere da ogni sfuriata.
Il riff portante e la sezione ritmica di “Holocaust” graffiano e frantumano come un mazzafrusto in pieno volto, o meglio come l’esplosione fiammeggiante di un missile, considerando i temi trattati, evidentemente distanti dalle atmosfere più ‘medievaleggianti’ che diverranno predominanti a partire dal successivo lavoro in studio, “Hammerheart”, la cui componente epica e dai risvolti più melodici lo renderà forse ancora più incisivo, affilato e prelibato.
Al subentrare del lato B del disco c’è posto persino per un po’ di sano heavy/black’n roll con la sempre irresistibile “For All Those Who Died”, che ad oggi risulta quasi ‘ballabile’, cui tuttavia seguono altri cinque minuti di mitragliatrice ferale in compagnia proprio di quella “Dies Irae” dai contenuti anticristiani più o meno in evidenza, degna ambasciatrice di quell’odio viscerale verso l’imposizione religiosa che presto sarebbe divenuta il bersaglio principale di una sempre più nutrita schiera di band, interne ed esterne al black metal nudo e puro.
La conclusiva e lunga titletrack rappresenta forse la massima maturazione dei Bathory e di Quorthon fino a quel momento, trattandosi non a caso del pezzo più belligerante e raffinato in assoluto, come una spada dalla cui elsa decorata emerge una lama dalla pregevole fattura, ma nel contempo in grado di tagliare, demolire e lacerare ogni nemico senza temere ammaccature. I tetri cori che emergono dagli spietati riff di chitarra forniscono un’ulteriore dose di epicità, così come gli inserti di chitarra acustica che accompagnano l’ascoltatore verso l’inevitabile fine di quello che di fatto è il primo atto di una trilogia destinata a maturare e modificarsi, fino a definire la vera e definitiva essenza di una band che, purtroppo, per un breve periodo perderà la bussola tentando di avvicinarsi al thrash metal. Fortunatamente si tratterà solo di una parentesi negativa, prima della definitiva consacrazione e conversione di un sound ancora oggi immortale, da non dimenticare mai e poi mai nel nome di ciò che caratterizza la nostra musica preferita, a scanso di qualsiasi moda a base di mjolnir ‘made in China’ ed elmi di plastica erroneamente provvisti di corna.