8.5
- Band: BEASTMILK
- Durata: 00:38:40
- Disponibile dal: 29/11/2013
- Etichetta:
- Svart Records
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Due EP dalla fattura sublime e di una bellezza sconcertante come il sanguinante debutto “White Stains on Black Tape” (in formato audiocassetta e composto soltanto da due tracce) e il fantasmagorico tripudio gothic punk di “Use Your Deluge” dell’anno scorso (sette pollici di quattro tracce), nonché la qualità megagalattica che caratterizza tutti i lavori degli Hexvessel, avevano fatto da tempo presagire e intravedere con nettezza il genio che caratterizza Matt “Captain Kvohst” McNerney e i compagni di band con i quali si circonda in entrambi i progetti. E inesorabilmente è arrivato l’attesissimo e impossibile da predire appuntamento con il full-length dei Beastmilk (registrato da Kurt Ballou ai Godcity Studios e licenziato dalla sempre più onnisciente Svart Records), che si è materializzato infine come espressione più ampia, variegata e indicativa di questo estro artistico che caratterizza i Nostri, come conferma di tutti presagi di grandiosità mostrata sin’ora, e simbolo ultimo e trionfante di questa verve creativa dai tratti geniali che contraddistingue McNerney e compagni. “Climax” è uno dei dischi dell’anno per un semplice motivo: ha un songwriting senza rivali. Ci sono canzoni qui dentro che sono tutte potenziali singoli, che evocano il vecchio nel nuovo e fanno rivivere il nuovo che era nel vecchio, che portano il passato nel futuro mostrandoci quanto futuro c’era nel passato degli eighties inglesi, e che ci fanno ri-innamorare della nostra perduta giovinezza. Ogni singola nota, ogni singola melodia, ogni singolo momento di questo album è fottutamente perfetto, memorabile e maledettamente senza tempo. “White Stains on Black Tape” e “Use Your Deluge” ci avevano ampiamente mostrato con nettezza lo stile della band, il cui propellente primario è un mix anfetaminico, esoterico, sontuoso e tremendamente dannato di post-punk funesto, gothic rock viscerale e dark wave scalpitante, ma con “Climax” scopriamo che l’immaginario dei Nostri è ben più ampio e sconfinato di ciò che avevamo visto nelle prime uscite. Sempre stupendamente calato nella propria e originalissima cornice concettuale (post)apocalittica che ha ormai definito in tutto e per tutto l’immaginario della band, “Cimax” è un lavoro che poggia le proprie fondamenta sull’uso rarissimo – e dunque sul trionfo assoluto dello stesso – della melodia perfetta e della rievocazione incendiaria di una fondamentale gloria passata, e che va oltre in talmente tanti modi, negli stili, negli intendimenti, nelle suggestioni e negli immaginari da risultare quasi un nuovo simbolo post-moderno dell’eredità immensa lasciataci dai Cure e dai Joy Division. La tripletta in apertura è da brividi: “Death Refelcts Us” è un piccolo condensato di genio, neanche tre minuti in cui rivivono i primi the Damned tramite l’energia isterica dei Siouxie And The Banshees; “The Wind Blows Through Their Skulls” (unico momento “riciclato” da “White Stains on Black Tape” ma ri-registrato per l’occasione) è uno dei momenti più alti del disco, un boogie dannato e centrifugatissimo di sublime gothic rock arroventato da elementi surf che ricorda “Wardance” dei Killing Joke come se questa fosse stata suonata dai Cocteau Twins; il trionfo totale di “Genocidal Crush”, poi, lascia esterrefatti per le melodie perfette e surreali che riesce a inanellare in tre minuti e mezzo scarsi di totale osmosi e catarsi gotica. I Fields Of The Nephilim di “Chord Of Souls” e ancora una volta i Killing Joke di “Love Like Blood” rivivono in questa canzone come un’ebollizione di pathos inarrestabile, grazie ad una linea di basso contagiosissima, e alle melodie vocali fuori dal mondo di Kvohst. Seguono a ruota senza il benché minimo calo di tensione o ispirazione “You Are Under Our Control”, un gospel scurissimo e isterico che sembra celebrato dai primissimi Christian Death di “Only Theater”, e “Ghosts Out of Focus”, struggente ballata di gothic punk cimiteriale che ci fa immaginare come sarebbe stata “Summerland” (ancora una volta dei Nephilim) se fosse stata suonata dai primissimi Misfits. Si prosegue quindi senza sosta in un tornado di emozioni che sembra non trovare fine, in cui “Nuclear Winter” già nel titolo sembra essere una traccia simbolo dell’immaginario apocalittico dei Nostri e in effetti rievoca in maniera incredibile quel senso di perdizione, rassegnazione e discesa agli inferi che era tanto cara a Ian Curtis e compagni, ma coadiuvata dalla modernità viscerale e liturgica dei Wovenhand, mentre “Fear Your Mind” addirittura fa rivivere il carisma e la magnetica seduzione del primo Danzig e dei primi Cult. La tripletta di chiusura rispecchia quella in apertura. Il genio della band e il suo estro nello scrivere canzoni memorabili e senza tempo infatti le permette anche di creare veri e propri cluster di hit, anche in chiusura, come se nulla fosse. “Love In A Cold War” ci fa inginocchiare di fronte ad un riff di chitarra pizzicato che da subito appare senza tempo, uno di quegli stornelli storti e sbilenchi che hanno ridefinito intere epoche per mano dei Bauhaus e dei Killing Joke e di fatto forgiato l’immaginario post-punk inglese degli eighties. Non sono da meno ovviamente “Surf The Apocalypse” altra scarica anfetaminica di boogie gotici e apocalittici accatastati gli uni sugli altri in un trionfo totale di melodie irresistibili, e la conclusiva e struggente “Strange Attractoers”, ballatone straziante e dannato dominato da una melodia vocale di Kvhost che ridurrà gli amanti di tutto ciò che che era eighties letteralmente in ginocchio in una pozza di lacrime sotto il peso di un pathos gothic e apocalittico inverecondo. In tanti discuteranno la natura poco “metal” del lavoro, ma saranno tutte congetture da bar, argomentazioni futili e insussistenti di chi non conosce un’epoca storica del rock che ha aiutato forse più di qualunque altro genere a materializzare tanto di quell’oscurità e di quella dannazione che oggi noi tutti amiamo della musica heavy, e “Climax” è un capolavoro iconico ed estemporaneo di quegli immaginari che va proprio a riscoprire quelle antiche sorgenti di struggente e primordiale oscurità al quale il metal deve così tanto.