7.0
- Band: BECERUS
- Durata: 00:30:18
- Disponibile dal: 20/12/2024
- Etichetta:
- Everlasting Spew Records
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Impossibile fraintendere il senso e le ambizioni di una proposta come quella dei Becerus. Anche nel 2024, con un artwork splatter a tema cavernicolo e titoli del calibro di “Obfuscated by Imbecility”, “Aggressive Illiterate” e “Progressive Mental Retardation”, il gruppo nostrano non fa nulla per nascondere la natura profondamente ignorante e liberatoria del proprio suono, ponendosi in antitesi al carattere ‘letterato’ di certo death metal contemporaneo e trascinando l’ascoltatore in una sorta di età della pietra dove lo sforzo per decifrare il contenuto dei vari brani è pressoché nullo.
Musica che, così com’era avvenuto per l’esordio “Homo Homini Brutus” del 2021, volge lo sguardo agli anni Novanta più concreti e muscolari e a gente come Cannibal Corpse (sia dell’era Barnes che dei primi lavori con Fisher al microfono), Broken Hope e Baphomet, scegliendo espressamente di non complicarsi la vita e di anteporre a qualsiasi sofisticazione i concetti di potenza e impatto, per la più classica delle mezz’orette durante le quali spegnere il cervello e seguire l’andamento percussivo dei riff.
Un approccio tanto basilare quanto contagioso, a patto ovviamente di disporre dell’ispirazione sufficiente a mantenere il tutto su livelli di efficacia e brio degni di questo nome, senza scadere in aggressioni oltremodo piatte e telefonate. E per fortuna, ancora una volta, la penna di Giorgio Trombino (Assumption, Bottomless, ex Undead Creep) non fatica a mostrare la giusta cazzimma, trovando una quadra fra l’animo parodistico del progetto – per certi versi accostabile a quello dei compagni di etichetta Birdflesh – e il mix di barbarie e meticolosità alla base di opere come “The Bleeding”, “Vile” e “Loathing”, facendo di questo ritorno, se non un’uscita in grado di spostare gli equilibri della scena death metal, quantomeno un onesto disco di genere.
Ben supportati dal growl e dalle metriche di Mario Musumeci (ex Balatonizer) e da una produzione potentissima, rifinita anche da Carlo Altobelli (Cripple Bastards, Hellish God, Pugnale), i pezzi di “Troglodyte” non brillano ovviamente per personalità o sfoggio di dinamiche superiori alla media, ma si può dire che facciano l’unica cosa che viene loro richiesta con una spigliatezza non sempre riscontrabile fra i discepoli dello stile di Jack Owen e Rob Barrett, quasi come se questo modo di esprimersi triviale ma preciso, a tratti ammantato di tecnicismo, fosse un qualcosa di assolutamente naturale.
Un gioco di incastri fra parti serrate e rallentamenti pastosi che invita genuinamente a dimenticarsi dei titoli di studio, dove se è vero che il motto “sentita una canzone, sentite tutte” suona veritiero, allo stesso tempo, il senso di appagamento non scende mai sotto la cosiddetta soglia critica.
Per i grandi fan del death metal americano di una volta, un buon sottofondo per le prossime vacanze natalizie, perfetto per spazzare via i vari jingle a suon di grugniti e bestialità.