
7.5
- Band: BEHEMOTH
- Durata: 00:37:48
- Disponibile dal: 09/05/2025
- Etichetta:
- Nuclear Blast
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A detta dello stesso Adam Darski, il tredicesimo full-length dei Behemoth nasce da un proposito preciso: confezionare un lotto di brani il più possibile orientati alla resa live, riportando al centro del discorso quell’immediatezza e quell’istintività in parte ridimenzionate dai chiaroscuri umorali di opere come “I Loved You at Your Darkest” (2018) e “Opvs Contra Natvram” (2022).
Quest’ultimo, in particolare, aveva immortalato la band polacca in uno stato di contrazione e stagnazione – in rapporto allo stile sdoganato dal celebratissimo “The Satanist” – che sembrava esigere una reazione forte e inequivocabile per non scadere in un seguito ancora meno stimolante e a fuoco, la quale (per fortuna) possiamo dire sia arrivata con questo “The Shit ov God”, lavoro che dimostra di possedere una vitalità ben superiore a quella manifestata in studio tre anni fa.
Un disco asciutto e, per certi versi, ‘semplice’, frutto di un gruppo che dà qui l’impressione di volersi esprimere senza più sondare le vie di una costruzione altisonante, ma facendo leva su una formula spontanea che non tarda a riflettersi in canzoni rotonde e prontamente memorizzabili. Non è un caso, insomma, che con otto pezzi per trentasette minuti di musica il nuovo arrivato sia anche la raccolta più stringata dai tempi di “Satanica”, così come non stupisce la volontà di insistere maggiormente su un suono potente, lineare e assimilabile a quello affinato nel periodo 2004-2009, con una limatura significativa degli spunti gothic rock (Fields of the Nephilim, The Sisters of Mercy, ecc.) introdotti nell’ultimo decennio.
Assodato questo aspetto, non aspettatevi un “Demigod pt.2” o episodi in grado di replicare la ferocia e l’intensità di una “Slaves Shall Serve” (sebbene il riffing di “Sowing Salt” non ci vada poi così lontano): “The Shit…” è sì un album più violento e tipicamente death-black rispetto ai due che lo hanno preceduto (aiutato anche da una produzione, a cura di Jens Bogren, che restituisce tiro e corpo alle chitarre), ma è comunque figlio dello status ‘da arena’ raggiunto dal trio di Danzica, qui alle prese con composizioni che inseguono (spesso raggiungendolo) il grande ritornello per assurgere alla dimensione di anthem martellanti.
Il taglio complessivo è insomma il medesimo dei singoli scelti per l’occasione (“The Shadow Elite”, la title-track, “Lvciferaeon”), fatto di strutture melodiche, snelle e vagamente orchestrali (si sentano i cori e gli interventi di effettistica disseminati qua e là) che portano le linee vocali del frontman ad incidere con rinnovata veemenza sul flusso sornione e catchy della tracklist, secondo un gusto quasi ‘pop’ circa lo sviluppo delle metriche.
Da qui, molto probabilmente, la solita ondata di disappunto da parte della frangia più integralista del pubblico, la quale ci aspettiamo non si tirerà indietro dal criticare le scelte artistiche della formazione, così come una serie di elogi non proporzionali al valore di un ritorno che parte benissimo (a questo proposito, citiamo anche l’incalzante up-tempo di “To Drown the Svn in Wine”) per poi calare nel finale, evitando comunque di perdere definitivamente slancio e inventiva.
La verità, come spesso accade in questi casi, sta nel mezzo: nel 2025, è appurato come le sorti e il futuro di certi suoni non passino più dalle gesta di Nergal, Inferno e Orion, i quali – ad ogni modo – si dimostrano ancora una volta attenti a non gettare la spugna del songwriting, reindirizzando quel tanto che basta il loro percorso da continuare a vestire i panni di leader autorevoli e confezionare almeno un paio di brani destinati a fare presenza fissa nelle setlist da qui a fine carriera.
Dopo trentaquattro anni di attività, la maggior parte dei quali spesi a lottare e crescere nell’underground, ci sembrerebbe assurdo pretendere di più di così.