9.5
- Band: BEHERIT
- Durata: 00:39:28
- Disponibile dal: 13/11/1993
- Etichetta:
- Spinefarm
- Distributore: Universal
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“Beherit” significa Satana in siriaco. Era un impensabile 14 novembre 1993 quando quattro giovanissimi ragazzi finlandesi, affacciatisi al mondo recanti tale nome e guidati da un giovanissimo DJ techno che si faceva chiamare NHV (Nuclear Holocausto Vengeance, al secolo Marko Laiho), licenziarono “Drawing Down the Moon” su una allora ancora nascitura Spinefarm Records. “Drawing Down the Moon” é un disco black metal tanto premonitore e “diverso” per i tempi in cui uscì (ricordiamo che band come Mayhem, Darkthrone e compagnia bella erano anch’esse ancora in fase embrionale allora, tanto che “De Mysteriis…” esce addirittura un anno dopo il lavoro in questione, ponendo enormi interrogativi sulla reale prima progenie e del “patient zero” del black metal come lo conosciamo oggi) quanto spiazzante e rivoluzionario per le tematiche e i suoni proposti. Se il blast beat e il tremolo picking (i due capisaldi stilistici del black) di derivazione thrash, impostisi come capisaldi irrinunciabili del black, sono stati un’invenzione successiva dei loro stretti cugini norvegesi, i Beherit, outsider sin da subito per la loro “eresia” stilistica impura, avevano però già dal 1990 abbracciato un satanismo becero e sfrontato e sviluppato una formula musicale mai sentita prima, considerata impura dalla limitrofa scuola norvegese ma capace di veicolare sentori di disgusto e repulsione inimmaginabili per i tempi, grazie ad un modo di suonare mortifero, comatoso e completamente abbattuto, e una delivery vocale mai sentita o concepita prima, tanto estrema e surreale che, all’epoca, deve aver persino strappato qualche sorriso di derisione. La formula sviluppata dai finlandesi consisteva essenzialmente in un mid tempo marcio e lurido di chiarissima discendenza punk (crust punk e post-punk in primis) e doom, capace di agevolare un groove malsano ma tremendamente melodico. Un modo di suonare extreme metal molto più prossimo agli Amebix (“Werewolf, Semen and Blood” potrebbe benissimo essere una “Fear of God” piegata ai voleri di Satana), ai Killing Joke e ai Black Sabbath (il trionfo di primitivissimo blackened sludge di “Sadomatic Rites” ne è un chiarissimo esempio) che alla velocità e all’irruenza dei Venom e dei Judas Priest, che hanno influenzato la prima scuola norvegese oltreconfine. Anche concettualmente i Beherit erano su tutt’altro pianeta rispetto al resto e forse per questo del tutto incompresi e “meritevoli” di essere trascurati ai tempi. Completamente disinteressati nei confronti di qualunque concettualità riconducente ad un orgoglio nordico, mitologico, purista o quant’altro, le parole ‘Satan’ e ‘Lucifer’ appaiono innumerevoli volte in questo disco, risuonando con l’intensità e la frequenza di una vera ossessione, facendo chiaramente capire cosa muoveva gli intenti della band. I Beherit sono forse la prima formazione apertamente e puramente satanica mai esistita, monotematica ed esplicita sull’argomento, e ossessionata da una cosa sola: il Male totale. Non appare alcuna altra tematica nella loro musica, nessun riferimento a Odino, al Cristianesimo, all’Ebraismo, alcun riferimento ad alcuna purezza nordica o alcun altro tema riconducibile alla scena black norvegese. I Beherit infatti stanno su un pianeta tutto loro, sin dal principio e da sempre, e talmente slegati dal resto che vengono guardati dall’alto al basso dai loro colleghi norvegesi, e anche spesso derisi e presi in giro (tant’è che in quegli anni nasce anche una band black metal norvegese chiamata Fuck Beherit). Ma i Nostri non se ne curano: a testa bassa e attingendo da altre ispirazioni rispetto ai loro colleghi, sono stati in grado di creare un lavoro rivoluzionario che tutt’oggi sembra brillare di luce tutta sua e irriproducibile e di personalità inarrivabile. La passione di NHV per la musica elettronica ha sempre avuto un ruolo cruciale nel sound dei Beherit (tanto che la band a fine anni Novanta si è trasformata in un progetto industrial/dark ambient). Sono infatti tracce come “Summerland”, “Lord of Shadows Goldenwood” e la intro “Tireheb” che mostrano nella musica dei Nostri le impensabili influenze dei Kraftwerk, dei Dead Can Dance e dei Throbbing Gristle; scelte, queste, che hanno fatto galleggiare la band ancora di più alla deriva e verso il mare aperto dell’indefinibile e dell’incategorizzabile, lontano dalle canoniche spiagge dell’extreme metal dei tempi e della familiarità del black norvegese, che si sarebbe imposto di lì a poco. Siamo insomma al cospetto di un disco estemporaneo e slegato da alcuna scena. Forse uno degli unici album metal mai fatti che non hanno alcuna scuola di appartenenza, e un lavoro talmente unico e incomprensibile, per i tempi in cui uscì, che questo non riuscì mai a filiare una reale discendenza se non decenni dopo e in tempi molto più recenti. La cronaca legata alla band e la loro biografia successiva all’uscita del disco confermano questo loro status di mosca bianca nel primo black metal. Poco dopo l’uscita di “Drawing Down the Moon”, i Beherit diventarono a tutti gli effetti una band elettronica licenziando una manciata di dischi puramente industrial-ambient (e confermando dunque che “Drawing Down the Moon” possa essere stato persino quasi una sorta di “errore” fatto dal gruppo in totale inconsapevolezza), per poi disintegrarsi silenziosamente e sparire dalle scene senza destare grandi clamori, mentre NHV si dedicava a tempo pieno alla sua nuova carriera di DJ techno affermatissimo. Come nel caso di “Written in Waters” dei Buens Ved Ende e “Nespithe” dei Demilich, anche “Drawing Down the Moon” è stato un disco talmente avanti e visionario rispetto ai tempi in cui è uscito che il mondo ci ha messo ben più di un decennio a capirlo e ad apprezzarlo sino in fondo, e oggi questo disco, nonostante la veneranda età di ben ventun’anni di vita, ci appare come ancora uno dei capitoli più moderni e attuali mai licenziati in ambito black metal.