7.0
- Band: BELPHEGOR
- Durata: 00:41:48
- Disponibile dal: 15/09/2017
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Warner Bros
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Tutto si può dire dei Belphegor, non che tradiscano le aspettative. Grazie anche a live show assai scenografici, ad altissimo tasso di emoglobina sparsa in ogni dove, gli austriaci si sono conquistati la fama di biechi macellai satanici, esecutori di mattanze pantagrueliche sia in studio di registrazione che dal vivo. Pressoché nullo è l’interesse per contaminazioni, esperimenti, progressioni stilistiche: gli strumenti sono il mezzo per esaltare un immondo sentire blasfemo, funestare gli animi, provocare genuino disgusto. Un discorso validissimo anche per quest’ultimo “Totenritual”, un altro pericoloso campionario di death-black viscerale, che parte a razzo e poco si ferma a ragionare, timido ad aprirsi verso sensazioni che non siano quelle di minaccia, odio, repulsione. Il nuovo entrato dietro il drum-kit, il giovane Simon ‘BloodHammer’ Schilling, compie un ottimo lavoro di sostegno e propulsione ai disegni di sterminio del leader Helmuth, dimenandosi con grande foga su pattern che il più delle volte si incanalano in blastbeat sconsiderati. Eccessivo il ricorso al trigger sulla doppia cassa, per il resto non si può eccepire nulla all’operato del batterista. Adeguata e conforme alle necessità espressive è la produzione, pulita e bilanciata per conferire ampio spazio di manovra sia alle chitarre tritatutto che al growl spesso virato allo screaming di Helmut, con batteria e basso a comportarsi da solidi anelli di congiunzione. Per quanto riconoscibile e privo di cambiamenti rispetto al recente passato, pur senza ricorrere a idee estrose, il riffing ha una sua efficacia intrinseca e un’espressività che non sono proprio da tutti. Forti di una ferma focalizzazione ad obiettivi omicidi mai venuti meno da quando il gruppo è stato fondato, i Belphegor architettano brani che per quanto prevedibili sanno avvincere ed evocare magnificamente uno sconvolgente scenario infernale. Abituati ad aspettarci un perenne sparatutto di chitarre nero pece e ritmi isterici, sono i rallentamenti e i cambi di direzione trancianti a destare il maggiore interesse. Piace molto ad esempio la melodia di fondo, dal gusto nordico, che attraversa la composita “Spell Of Reflection”, dove apprezziamo anche i diversi registri vocali di Helmuth, bravo nel provocare brividi lungo la schiena con uno strascicato recitato. Riuscita la mescolanza di tempi ‘pestati’ ad alto tasso di brutalità e strappi monocromatici di “Swinefever – Regent Of Pigs”, che non disdegna accenni di finezza in fase solistica. Emergono un’ariosità lodevole e un taglio atmosferico sinistro in “Spell Of Reflection”, che si snoda fra progressioni scenografiche e aloni di epicità, misti a un sentimento di orrore pressante indotto da digressioni fangose e il gorgogliare della voce. La capacità di inoltrarsi con sicurezza nei reami mortuari, adottando in brevi scampoli soluzioni di ascendenza death-doom, se non classic doom, dà una marcia in più a “Embracing A Star”, che pur comprendendo le regolari carneficine della casa segna il passaggio a metodiche elaborate e nient’affatto manieristiche. Certo, il cardine della proposta restano le scarnificanti, anthemiche sfuriate a velocità smodata di una “The Devil’s Son”, pezzo canonico quanto si vuole ma suonato con tale convinzione e vivacità che è impossibile non apprezzarlo. Arriviamo in fondo senza accusare un fastidioso senso di sazietà, anzi, si ha voglia di ripetere il percorso di tortura appena compiuto, magari alzando di una tacca il volume. Parafrasando gli AC/DC – l’idea di reiterazione di se stessi con lievi modifiche, per certi versi, è quella dei leggendari rocker australiani – se desiderate sangue, qua lo avrete in abbondanza.