6.5
- Band: BENEATH THE STORM
- Durata: 00:38:38
- Disponibile dal: 11/11/2013
- Etichetta:
- Argonauta Records
- Distributore: Goodfellas
Spotify:
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Batillus, Necro Deathmort, Halo, Greymachine, Godflesh, Jesu… Sono molti i progetti che hanno saputo unire in maniera fluida e levigata il doom con l’industrial. Le drum machine con chitarroni enormi e downtuned al massimo, soundscape digitali con voci tombali, e ritmiche al limite del coma totale con strutture compositive dal feel futuristico e cibernetico. Sulle stesse frequenze si inseriscono gli sloveni Beneath The Storm, in realtà una one man band concepita dal misterioso Shimon che in questa sede sembra aver scritto, suonato e registrato tutto da solo, e che con il presente “Temples of Doom” giunge al debutto sulla lunga distanza. In linea di massima possiamo affermare che, senza grossi sussulti o sorprese degne di nota, il lavoro finisce esattamente come inizia. Ovvero dall’inizio alla fine, pur mostrando un songwriting tutto sommato dinamico visto il genere e spunti creativi non trascurabili, il lavoro offre poca variabilità, rimanendo piuttosto invischiato in un doom incrostato e pachidermico. Le ritmiche e l’impianto percussivo non cambiano mai, ma rimangono inchiodati sugli stessi BMP per l’intera durata del lavoro, trascinandosi dall’inizio alla fine in una palude di basse frequenze viscosa e bitumosa. A tratti la lentezza proposta sfiora i limiti del soffocante e del necrotico totale, toccando i lidi dei primi, orrendi Moss e dei Sunn O))), seppur l’impianto percussivo eretto dalle drum machine non scompaia mai del tutto. Difficile menzionare un brano rispetto ad un altro, visto che il lavoro offre una continuità da una traccia all’altra pressoché totale, sfocando la tracklisting quasi completamente in un unico magma sonoro che scorre bene ma che non permette di soffermarsi su specifici momenti individuabili come a sé o diversi dal resto. L’opera è fruibile molto più facilmente se presa nel contesto dell’unica canzone divisa in tracce solo per comodità, anche qualora l’intento di Shimon non fosse propriamente questo. Ma tant’è, il risultato finale offre poche altre possibilità di fruizione visto il format e lo stile proposto. L’unico elemento dinamizzante presente nel lavoro sono i tanti sample che lo costellano, registrazioni di conversazioni sconosciute, presumibilmente tutti dialoghi estrapolati da film di fantascienza. Un innesto interessante e coerente con la visione d’insieme del lavoro che ha aiutato a rendere interessante e coinvolgente un ascolto altrimenti titanico, sì nei suoni e nelle strutture, ma anche nel suo a tratti comatoso immobilismo.