7.5
- Band: BIG BRAVE
- Durata: 00:39:40
- Disponibile dal: 15/09/2017
- Etichetta:
- Southern Lord
- Distributore: Goodfellas
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Arrivati al terzo tassello discografico, il trio di Montreal continua a stupire per l’effetto straniante che il loro rock sperimentale riesce ogni volta a portare avanti. Con “Sound” il nuovo album si apre ancora ad un metal in slow motion, oppressione sludge, devianza della voce di Robin Wattie, fragile e quasi inquietante, che riesce ad inquadrare lo spirito di un’epoca, con i violini prestati da Jessica Moss (Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra, già presente ampiamente nel precedente “Au De La” del 2015), le bordate delle due chitarre e l’aiuto del contrabbasso di Thierry Amar (Godspeed You! Black Emperor) . Nonostante facenti parte – opportunamente – del catalogo Southern Lord, le tonalità tipiche di certi prodotti Constellation si sentono eccome, e non è un caso che, mentre il precedente album (tutto da riscoprire nella sua bellezza) era stato registrato da Efrim Menuck dei Godspeed You! Black Emperor, questo è invece opera di Radwan Ghazi Moumneh dei Jerusalem In My Heart. “Ardor” si compone di tre tracce, tutte sopra i dieci minuti di durata, nelle quali si riesce ad assaporare un preciso andamento e non vi è la minima aria di jam, anzi, i brani sono strutturati con cura, così come gli arrangiamenti e le linee vocali, in una forma canzone ben determinata. “Lull” è un momento speciale nel corso dell’album, in cui la voce della Wattie riesce a recuperare le tonalità tanto care ad una certa ed ultima Chelsea Wolfe, unendole ad un range di emozioni ancora più ampio, ricordando i momenti migliori di una certa Lydia Lunch e Diamanda Galas. A queste suadenti note di sirena sottostà un architrave doom e feedback tipici di un certo noise/art rock, divenendo una composizione orientata sui canoni post-rock più fine, lento, incombente, rispetto a quelli fatti di break, crescendo e soluzioni più immediate. In “Borer”, terza ed ultima traccia, e nei suoi 14 minuti, si sente forse il passaggio più oppressivo del discorso di “Ardor”, dove l’andamento sludge si apre all’espressione più minimale, fatta di due chitarre e una batteria, secca, lenta, senza nessun orpello di fondo, riscoprendo forse quelle attitudini quasi Sonic Youth, unite al drone Sunn O))) e passate per una sensibilità à la Bohren & Der Club Of Gore, mai posticcia o derivativa, ma capace di essere vera, originale e sincera come molte delle proposte della città canadese, in cui evidentemente si respira un qualcosa di molto vicino alla visione artistica più autentica. Musica fatta di idee, oltre che di suoni. E di intensità. Le tonalità più proprie di mostri sacri del genere (come Boris, Earth e Swans) sono tutte presenti nell’incedere monolitico di “Ardor” e nei suoi tre momenti, riconducendo l’ascoltatore in territori ampiamente indagati da questo tipo di approccio musicale, ma dove perdersi è ancora un momento di catarsi fluida, magmatica, primordiale che si dovrebbe provare di tanto in tanto per ricongiungersi con ciò che ci sta intorno.