7.0
- Band: BIGROUGH
- Durata: 00:25:00
- Disponibile dal: 12/12/2011
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Sconsolati dal sovraffolamento dell’attuale scena hard rock italiana (non sempre quantità è sinonimo di qualità), restiamo un po indispettiti dall’incipit di questo EP autoprodotto dei milanesi Bigrough. Spinti nella cattiva direzione forse da un titolo che incorpora la parola “Thunder…”, veniamo infastiditi da una citazione (pur velata) degli australiani AC/DC, punto di riferimento davvero stra-abusato da questo revival di rock diretto e senza fronzoli. Proseguendo l’ascolto di questo disco, invece, non solo ci troviamo inconsciamente a dover chiedere scusa al power-trio meneghino, ma ci accorgiamo di aver inserito senza renderci conto il nostro personalissimo “rocker-automatico”, cosicché assistiamo come spettatori alla nostra mano che cerca una birra gelata per entrare nel giusto “mood” e nella più corretta attitudine. Pochi (se non nulli) i riferimenti ai patinati anni Ottanta, ma puro e sanguigno rock suonato con cuore, testicoli e stomaco, in cui i Nostri chiamano a jammare su di un ipotetico palco calibri come Angus Young, Chuck Berry e Ted Nugent. Rock’n’Roll che affonda le proprie radici nel blues più nero, nel jazz “cattivo” (che a livello subliminale fa capolino in tutto il disco) e nel rock suonato nella paludi, tra riti voodoo, odore di sudore, vecchie Gibson che portano i segni del tempo e lunghe barbe ingiallite dalle sigarette. Difficile citarvi band di riferimento, in quanto potremmo davvero sparare a caso nominando Damn Yankees, Amboy Dukes, Pride And Glory e qualsiasi ottima ed onesta band che potreste trovare ammassata con i propri strumenti in un angolo di una birreria americana, che tra il frastuono della gente si impegna a proporre i propri brani, semplici, ammalianti e dotati di vita propria. Ottimi i soli di chitarra, ad opera del singer e membro fondatore Alex Cole (il quale si cimenta anche con buoni risultati con l’armonica a bocca); il Nostro pecca in alcuni frangenti in intonazione e qualità vocale, ma ci ricorda altresì che il rock non è fatto di “trucchi” da studio e batterie computerizzate, ma di valvole scaldate e dovere, ugole bagnate di whiskey ed anime ribelli. Un plauso alla sezione ritmica, che non si limita a tenere il tempo, ma suona in modo fantasioso e senza sbavature. Possiamo citare la bella “Sweet Little Dynamite”, ricca di ottimi riff e una linea vocale già sentita ma assolutamente godibile: notevole il lavoro incessante dello sforna-riff Alex, qui impegnato in fraseggi e assoli che palesano tutto il suo amore per gli States. Brano atipico per questo lotto di tracce è l’ultima “Gold Washerman”, canzone che si distingue per una intenzione stranamente “metal” e moderna (ricorda le produzioni dei Maiden “era-Bayley”). Un buon inizio.