7.5
- Band: BLACK COUNTRY COMMUNION
- Durata: 00:58:00
- Disponibile dal: 29/10/2012
- Etichetta:
- Mascot Records
- Distributore: Edel
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Capita spesso di recensire band che non esistono più, trovandosi a che fare con ristampe, celebrazioni di dischi storici e mai dimenticati (come nel caso dei nostri “Bellissimi”), ma più raramente ci troviamo nella situazione di dover scrivere un articolo sull’uscita di un disco nuovissimo ed appena pubblicato da un band dal futuro ben più che incerto. I Black Country Communion sono la riprova del fatto che le famigerate “all star band” non sono sempre e solo un prodotto preconfezionato dalle case discografiche ed utilizzando la scolastica prova del nove, ci accorgeremmo al contrario che la matematica davvero non è un’opinione: spesso due più due fa davvero quattro. I quattro in questione, sono davvero “fantastici”, in quanto come ben saprete la band sopra citata altro non è che l’unione dei talenti indiscussi di Glen Hughes, Joe Bonamassa, Derek Sherinian e Jason Bonham. Veri e propri stakanovisti del rock, i Nostri pubblicano album in tempi serratissimi e tutti – ripetiamo: tutti – di qualità eccelsa, rappresentando dei veri e propri compendi di groove, hard rock settantiano, funky, blues e soul. Cosa succede dunque in casa Black Country Communion? Si potrebbe dire che qualcuno, senza fare nomi (Bonamassa), non riesca, causa propri impegni, a reggere il ritmo di sua maestà Hughes, il quale scrive quasi totalmente l’intero disco qui preso in oggetto, al punto di arrivare a pensare di pubblicarlo a suo nome, per poi registrare e pubblicare il tutto sotto l’egida della (super) band angloamericana. Prodotti da Kevin Shirley (Iron Maiden e Dream Theater, tra gli altri), i Nostri sfornano l’ennesimo disco pregno di quei suoni che ci scaldano il cuore, che ci staccano per un attimo dal glaciale e mefistofelico black metal, dal tecnico ed a volte esasperato death metal, dal trendaiolo death-core e dalla moltitudine di sotto-generi partoriti da mamma blues e papà rock. Torniamo in pace con noi stessi, sintonizzandoci sulle frequenze rassicuranti di un suono che ci riporta alle radici di tutto ciò che stiamo ascoltando attualmente, con la voce di Hughes che vola ancora alta (a volte anche quando non dovrebbe, ad essere sinceri) e ci ricorda che quest’uomo puzza di Sabbath e Deep Purple lontano un miglio, per non parlare di quanto e quando Bonamassa lo afferri per una caviglia, riportandolo violentemente a terra, con il suo blues viscerale ed a volte sorprendentemente hard rock. Vero mattatore del disco è un sempre bravissimo e tamarro Sherinian, il quale abbandona ogni velleità elettronica e modernista per calarsi perfettamente nel ruolo di tastierista anni ’70, sempre presente e mai invadente, al punto che quasi ci “dimentichiamo” di lui, ma se dovesse anche solo per un istante sollevare le sue dita magiche dai tasti saremmo subito pronti a chiamarlo a gran voce. Un Bonham che si scrolla di dosso una pesantissima eredità, suonando con un groove ed una intenzione strappa-applausi, ci trascina in questo viaggio tra assoli di Hammond, duetti strumentali da brivido, vocals eccelse ed un Bonamassa che sembra davvero una sorta di Re Mida, tramutando in oro ogni nota che tocca (bellissimo il break strumentale di “Common Man”, una lunga jam in cui il chitarrista emerge su tutti con il suo assolo dannatamente rock ed influenzato da jazz e blues, con note dissonanti e familiari passaggi classicamente pentatonici). Citiamo “The Giver”, che parte leggermente sottotono per poi riprendersi anche grazie al “solito” Bonamassa, la bellissima “This Is Your Time”, che sembra strappata di forza da un album del miglior Hughes solista, una tirata “Confessor” che rimarrà stampata nella nostra mente per molto tempo ed una superlativa e riflessiva “Afterglow”. Sperando in un futuro per questa band, concludiamo asserendo che i pochissimi difetti presenti in questo disco sono legati all’essenza stessa dei musicisti coinvolti (vedi uno strabordante Hughes, che a volte sembra davvero quasi incapace di contenere i propri esplosivi acuti), e ad un atmosfera leggermente più cupa rispetto ai lavori precedenti, ma che conferma l’ex bassista dei Purple come un autore davvero toccato dal Signore, che circondandosi di musicisti eccelsi non può davvero che mettere a segno l’ennesimo centro. L’avevamo detto, due più due fa quattro, è matematica.