8.0
- Band: BLACK CURSE
- Durata: 00:45:07
- Disponibile dal: 25/10/2024
- Etichetta:
- Sepulchral Voice
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Se il debut “Endless Wound” (2020) aveva già sollevato un certo polverone nell’underground, questo nuovo lavoro dei Black Curse affonda le radici ancora più in profondità, portando il sound della black-death metal band statunitense a un nuovo livello di complessità e intensità. L’apparente uscita di scena del chitarrista Morris Kolontyrsky – probabilmente troppo impegnato con i Blood Incantation – non ha frenato il gruppo, che ha accolto Steve Peacock (Spirit Possession, Ulthar) per portare avanti un discorso musicale che oggi si riflette in strutture più articolate e in una visione più ampia del songwriting.
La produzione, affidata nuovamente al prodigio Arthur Rizk (Blood Incantation, Spectral Voice, Xibalba), questa volta si fa più fumosa e opprimente, in linea con l’evoluzione a livello strutturale della musica: se “Endless Wound” era un’esplosione fragorosa, “Burning in Celestial Poison” si insinua come un veleno, catturando l’ascoltatore in un’atmosfera più densa e avvolgente. Il suono, pur mantenendo la sua brutalità, sembra in effetti essere stato filtrato attraverso un velo di nebbia, conferendo ai brani un’aura profondamente sinistra che va appunto di pari passo con il cambio di approccio sul fronte stilistico. Questa volta la band si prende il suo tempo, permettendo alle composizioni di svilupparsi in modo più articolato e di inglobare diverse sfumature dell’ombrello black-death, prendendo le mosse da una traccia particolarmente completa come “Finality I Behold”, episodio conclusivo dell’esordio.
Di nuovo, le basi dello stile del gruppo vanno rintracciate nei Necrovore e in formazioni affini, per arrivare a band più vicine ai giorni nostri come Teitanblood, Vorum o Pseudogod. Si potrebbe a tratti parlare anche di ‘war’ metal, ma nel songwriting del quartetto si percepisce sempre un controllo e una cura per il riff che non sempre sono rintracciabili in formazioni appartenenti a quel filone. A maggior ragione in composizioni così lunghe, è vitale avere un certo orecchio per le dinamiche e dare al tutto uno sviluppo il più possibile narrativo per giustificare un tale minutaggio. Le trame si allentano e si dilatano per poi richiudersi all’improvviso, e nella vacuità che si viene a creare in certi momenti il gruppo arriva quasi a proiettare una sorta di poetica della rivolta. Non siamo quindi più nei tentativi di certe vecchie avanguardie musicali che, con passaggi a volte confusi, tentavano di nutrirsi di scarti o di esibire l’atroce senza fare troppi calcoli. In questo costrutto più vasto, non mancano, peraltro, momenti di sorprendente accessibilità: alcuni riff, pur immersi in un contesto sonoro così estremo, riescono a emergere subito per la loro rotondità, rendendo alcuni passaggi quasi orecchiabili, senza mai compromettere l’intensità della musica. È in questi momenti che il talento compositivo della band si manifesta con maggiore evidenza: non è infatti facile bilanciare estremismo e musicalità in un genere come questo, e i Black Curse riescono a farlo con maestria, trascinandoci in un luogo di ombre cupe che pretendono una forma di reazione dall’ascoltatore.
Guidati dalla voce esecrabile di Eli Wendler (Spectral Voice), i Black Curse dimostrano con “Burning in Celestial Poison” di avere quindi raggiunto una maturità notevole, in un filone dove si corre spesso il rischio di scadere nella fumosità gratuita. Lo dimostrano gli undici minuti di “Spleen Girt with Serpent” e quelli di “Trodden Flesh”, i due picchi di un album che cresce parecchio con gli ascolti e che porta i Black Curse definitivamente ai piani alti di questo panorama.