9.0
- Band: BLACK LABEL SOCIETY
- Durata: 01:06:55
- Disponibile dal: 20/04/2004
- Etichetta:
- Spitfire Records
- Distributore: Edel
Spotify:
Apple Music non ancora disponibile
Avvertenza: leggere con cautela – può avere effetti collaterali.
Maledetta, sporca, lurida, turpe, invereconda voglia di fare musica. Se non ci fosse Zakk Wylde, ad infangare le linde strade della Coerenza Musicale – principio predicato con sempre eccessiva leggerezza e troppo spesso malamente interpretato, specialmente entro i confini del Regno dei Metalli Pesanti – ci sarebbe seriamente bisogno di partire alla ricerca di una figura capace di ricoprirne il ruolo. Ma, per fortuna, mai la grande Madre Musica ebbe figlio così devoto ed ostinato quanto il nerboruto uomo-Gibson che, con una tenacia degna degli immortali nomi del passato, ha guadagnato in sedici anni di sudore e dedizione il diritto di scrivere e suonare (e a pieno titolo, ammettiamolo pure) tutto ciò che sente, pensa, patisce, tocca e… vive. Da essere umano a essere umano. Per ritornare all’origine. Per ricordare il reale significato del ‘fare musica’. Perché la strada intrapresa da Zakk è stata, oggi possiamo dirlo, percorsa con umiltà, onore e forza: sradicato nel 1987 a soli diciannove anni dal natìo New Jersey addirittura da Ozzy Osbourne il Magnifico in persona, chiamato a ricoprire il poco invidiabile compito di chitarrista solista nella band del glorioso ex Black Sabbath, il talentuoso gigante non ha mai deluso le aspettative in lui riposte, passando per ardue prove che lo hanno visto affiancato al suo mentore quale co-writer in molti storici album del calibro di “No Rest For the Wicked”, “No More Tears” e “Ozzmosis”. Il tutto senza mai smettere di dare ascolto e voce al richiamo di una più profonda esigenza espressiva che chiedeva, a detta dello stesso Wylde, di ricevere la luce quale lato ‘altro’ dell’educazione musicale e della personalità ricevute e acquisite sotto l’ala protettiva di Ozzy. Cominciano così nel 1994 le sue vicissitudini solistiche, che somigliano a vere proprie avventure, intrise come sono di sincerità, sperimentazioni, azzardo e calore: stiamo parlando naturalmente dell’unica, omonima release del southern rock project Pride & Glory, e della successiva “Book Of Shadows” (uscita a nome di Zakk Wylde stesso), in seno alle quali avrà il tempo di sviluppare il suo particolare, strascicato cantato di sapore country-blues, insieme al gusto per un sound più luminoso e melodico, e alle sue capacità di frontman. Ma la più grande dote di Wylde, naturalmente, emerge nella sua istintiva, ferina simbiosi con il proprio strumento d’elezione – la Les Paul con la quale ha conquistato tutti gli onori della critica mondiale di settore in questi ultimi dieci anni – simbiosi che dal nulla infine prende corpo nel 1998 nell’ameno sembiante della creatura Black Label Society, ultimo (in ordine di tempo) avatar di un musicista dalla frammentata personalità, e incarnazione del suo lato più malinconico e violento, per la precisione. Dalla più semplice voglia di suonare, di esprimersi, e di spaccare la faccia al mondo a suon di riff pesanti come badilate di ferro ricevute in pieno volto, ecco allora fiorire nel giro di quattro anni quelle gemme di viscida bestialità che sono state “Sonic Brew” e “Stronger Than Death” (poi fedelmente fotografate nel loro impatto sonoro dal vivo nel grezzissimo “Alcohol Fueled Brewtality Live!!! – plus Five”), seguiti dai ben più apprezzati “1919 Eternal” e “The Blessed Hellride”, usciti con cadenza praticamente annuale. Perché, per divertirsi, Zakk ha bisogno di mantenersi sempre le mani sporche, si potrebbe essere portati a pensare: riff e sound à la Pantera vengono allora incessantemente tirati in ballo in una vischiosa, letale commistione con tutti i trademark che hanno reso inconfondibile la sua produzione e sperimentazione musicale – fino a generare, nel beato quanto oscuro isolamento di lavori in cui Wylde suona quasi tutto, eccezion fatta per la batteria, mostruosi ‘ambienti’ dall’aria fetida di alcol e sudore, in cui non c’è posto che per urla e sano, lacerante rock ‘n roll. Che è un po’ crossover e un po’ thrash, in fin dei conti, pure. E così, ci siamo di nuovo: puntuali ci presentiamo anche noi all’annuale appuntamento con la Bullseye più torturata del globo, che proprio in questi giorni sforna la sua quinta creatura, fresca di studio, “Hangover Music – Vol. VI”. Il titolo già lascerebbe presagire una release animata da quel ‘certo’ spirito proprio degli episodi più ignoranti della Society Dwelling Mother Fucker, ma… no. No davvero. Confusa, malinconica, trasognata e calda, caldissima… cos’è questa “Crazy High” che apre il disco (che finisce per direttissima, insieme ai due brani che la seguono, a “Won’t Find It Here” e a “No Other”, sul podio dei pezzi più belli di “Hangover Music”)? E la cadenzata “Queen Of Sorrow”, che tanto decisamente ispira abbandono e vento, viaggio e distanza? E sì che sono riconoscibilissime fin dalle prime battute la voce e la chitarra di Zakk, sì che si ritrova facilmente il sapore amaro delle ‘dark ballad’ di “Book Of Shadows”… sì che questa è la solita, inequivocabile (almeno a giudicarla dal sound), release della Black Label Society. Certo che lo è… ma è vero: musica da postumi di sbornia, è questa, e il titolo parla ben più chiaramente di quanto non avessimo potuto immaginare. Ecco come il grande axeman ci spiazza, infine… cantando, suonando, raccontando la bianca solitudine, l’impastata stanchezza delle mattine in cui ci si sveglia dopo una notte di ‘brewtality’ o dopo venti ore di viaggio nel tourbus, di quei momenti in cui la luce del giorno si richiude e ci richiude su noi stessi per regalarci un guscio in cui trovare rifugio per un momento di intima riflessione. “Steppin’ Stone” sembra, tuttavia, portare in sé l’eco di una folla che grida in lontananza – chissà dove, poi? Forse nella memoria… – mentre più decisamente “Yesterday, Today, Tomorrow”, una sorprendente ballata dal vago odore southern, chiude in soffitta quella che sembrava la colonna portante del mood della Black Label Society, la rabbia. Colorate e collose, una più attraente dell’altra, le tracce si susseguono così in un platter che certamente alimenterà molti pareri contrastanti, ma che difficilmente attirerà l’ira degli inquisitori su di sé, speriamo (“Troppo leggero! Tradimento!”, ci sembra già di sentir gridare). Quel che è certo è che le tinte sono forti, in pieno Wylde style: la sei corde vibra, urla, geme, si contorce e piange… piange come solo Zakk sa farla piangere, fischia e soffre per quella sofferente nostalgia che solo lui sa infliggerle. No, davvero, lo stile di Zakk non è affatto cambiato, in un modo o nell’altro. Drammatiche e vibranti sono le bellissime “Won’t Find It Here” e “She Deserves A Free Ride”, così come l’emozionante interpretazione di “A Whiter Shade of Pale” (!), l’hit di Procol Harum del 1967. Per costruire questa variegata rosa di sensazioni che ci grattano via di dosso velenose malinconie con le unghie e con i denti, il biondo chitarrista si è del resto circondato di un buon numero di amici e ospiti: dietro le pelli troviamo il fidato compagno di viaggio Craig Nunenmacher (ex Crowbar), coadiuvato da un contributo di John Tempesta (White Zombie e Rob Zombie), mentre il proprio apporto hanno dato in alcune parti di basso James LoMenzo (David Lee Roth, Pride & Glory), John “JD” DeServio (già nei Black Label Society dal vivo) e Mike Inez degli Alice In Chains. E forse è proprio quest’ultima band a dare qui in prestito una grossa fetta del mood che fa da filo conduttore per le tracce di questo disco, in cui troviamo anche un esplicito e commosso tributo, “Layne”, allo scomparso Layne Staley. Fluido e sempre densissimo, fino alla conclusiva e claustrofobica “Fear” questo lavoro non perde un solo colpo – non uno! – mettendo a nudo ancora un altro lato della genuina eterogeneità interiore di Zakk Wylde… un musicista cui oggi, come sempre, non si può fare a meno di chiedere di continuare a considerare la Musica strettamente e visceralmente connessa alla Sensazione, e alla Vita. Tanto è il Calore, tanto è l’Amore che questo enorme armadio a quattro ante umano è capace di infondere in essa con le sue due voci, quella umana e quella ‘elettrica’, per così dire (per dio, l’assolo e i bending da demolizione di “Queen Of Sorrow”!). Che spesso, poi, sono una cosa sola: perché se Wylde si sia montato in gola le corde della Bullseye, o se i liutai della Gibson gli abbiano strappato via le sue per montarle sullo strumento che imbraccia da sempre, be’… questo resta infine un mistero, cui ci arrendiamo serenamente e di buon grado. Questa nuova ferita aperta così brutalmente, e poi tanto spietatamente e sistematicamente dilatata nel tempo sul corpo della Madre Musica porta un nome… e un’etichetta. Nera. Perché non si è mai visto nessuno, così giovane, suonare con tanto amore. Perché questo È Amore. E fa male. “Damage is done”. E così sia.