7.0
- Band: BLEED
- Durata: 00:36:03
- Disponibile dal: 02/05/2025
- Etichetta:
- 20 Buck Spin
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Con il loro full-length di debutto, semplicemente intitolato “Bleed”, i texani Bleed consolidano e ampliano il percorso tracciato con il fortunato EP “Somebody’s Closer”. Curiosamente pubblicato dalla 20 Buck Spin, etichetta nota per il suo catalogo death metal, questo esordio sulla lunga distanza conferma le aspettative in termini stilistici, spingendo il sound del gruppo statunitense in territori ancora più immersivi.
Fin dalle prime note, il disco ripropone quindi quell’impronta che ha generato tanto entusiasmo attorno alla band: un metal ibrido e atmosferico, perennemente pervaso da un senso di malinconia oceanica, dove il groove dei riff si amalgama in ogni traccia con melodie avvolgenti e un pronunciato senso di sospensione. L’influenza shoegaze è qui più marcata che mai, richiamando le intuizioni più eteree dei Deftones o riproponendo quell’alchimia tra tensione e rarefazione che caratterizzava – vedi Failure o Hum – parecchio alternative rock/metal dei tardi anni Novanta e dell’inizio del nuovo millennio.
Rispetto al mini, il debutto su lunga distanza espande il respiro delle canzoni, mantenendo la compattezza delle strutture, ma accentuando la ripetizione ipnotica dei pattern sonori. Le chitarre si stratificano in ondate di distorsione, costruendo un muro sonoro che oscilla tra rabbia repressa e languida contemplazione. Il lavoro di batteria, pur non particolarmente variegato, pulsa con intensità, sottolineando il dinamismo sotterraneo delle tracce.
Il vero elemento distintivo del disco, nel bene e nel male, resta la voce del chitarrista/cantante Ryan Hughes: il suo timbro limpido e flemmatico contribuisce a creare un’atmosfera sospesa e sognante, ma la sua scelta di rimanere costantemente su registri elegiaci, senza significativi cambi di intensità, finisce per generare una certa omogeneità tra i brani. Questo aspetto, unito alla tendenza della band a reiterare schemi simili in sede di struttura delle composizioni, porta a un lieve senso di ripetitività che non era percepibile nel formato più conciso dell’EP.
Nonostante ciò, “Bleed” non è comunque un album che si trascina o che rischia di annoiare: con una durata di trentasei minuti, la band sa quando fermarsi, evitando di indulgere in prolissità che potrebbero smorzare troppo l’impatto emotivo del lavoro. Alcuni momenti emergono con particolare forza, grazie a variazioni più marcate nella grana sonora o a un uso più incisivo delle backing vocals, che in alcuni passaggi si fanno più aggressive e visceralmente coinvolgenti. In questo senso, si fanno notare subito la collaborazione con gli Static Dress nella più movimentata “Enjoy Your Stay” o il carattere più disteso, punteggiato da un sinuoso gioco di percussioni, di “Shallow”.
L’album, in definitiva, si configura così come un’opera che, pur non innovando radicalmente, consolida l’identità dei Bleed e afferma il loro potenziale in un panorama underground che sempre più di frequente accoglie le contaminazioni tra shoegaze e metal. Se da un lato manca forse una maggiore diversificazione tra i brani, dall’altro il disco lascia un’impressione persistente, come un’onda lunga che continua a riecheggiare anche dopo il suo svanire.