9.0
- Band: BLOOD CEREMONY
- Durata: 00:44:10
- Disponibile dal: 25/03/2016
- Etichetta:
- Rise Above Records
- Distributore: Audioglobe
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Sin dai primi arditi vagiti artistici, i Blood Ceremony hanno dimostrato di essere un gruppo straordinariamente capace di esprimersi con un linguaggio forbito ed elegante, pregevole virtù che ha permesso loro di conquistare il cuore di tutti gli amanti del lato più oscuro e deviato del rock progressivo. Giunti al quarto capitolo in studio rilasciato a tre anni di distanza del pur valido “The Eldritch Dark”, il collettivo canadese supera ogni nostra più rosea aspettativa plasmando nove composizioni sublimi e cangianti, dalle quali trionfa uno sconfinato estro artistico. Impossibile poi non rimanere ammaliati dalla voce stregata della cantante, nonché abile flautista e organista, Alia O’Brien, autorevole sciamano che ci guida per mano attraverso sconfinate pianure brumose intrise di ancestrale mistero. Black Widow, High Tide, Coven e Jethro Tull sono i già noti punti cardinali dai quali i Nostri elaborano un linguaggio distinto e personale, alterato chimicamente da un persistente e marcato afflato psichedelico. Malcelati umori freak prendono il sopravvento nel gioioso baccanale acustico palesato dalla godereccia “Flower Phantoms”, così come i nostri sensi vengono inesorabilmente trascinati nell’oblio dalla cupa ballata “The Weird Of Finistere”, maledetta dall’ingombrante spettro di Nico dei The Velvet Underground. Incantano e seducono le meravigliose armonie vocali della camaleontica “Lorely”, episodio potenzialmente degno di essere incluso nel celebre “Magical Mystery Tour” dei The Beatles, chiusa in coda da un soffocante e drammatico affresco di mellotron. “Old Fires” strizza invece l’occhio ai Deep Purple colti, loro malgrado, ad improvvisare nelle segrete di un castello medioevale infestato dai fantasmi. La sinuosa title track e l’articolata “The Devil’s Widow” preludono ad un’inesorabile viaggio verso la morte, nel quale l’anima della O’Brien viene rapita e posseduta dal mitologico Orfeo. Il doom metal forgiato a suo tempo dai Black Sabbath subisce una scossa sismica all’altezza del chorus dell’imprevedibile “The Rogue’s Lot”; mentre la dolce e bucolica “Things Present, Things Past” collassa in un greve finale catastrofico, ponendosi come ideale chiusura di una straordinaria esperienza sensoriale, difficilmente replicabile anche dagli autori stessi. Un miracolo.