8.0
- Band: BLOODBATH
- Durata: 00:46:31
- Disponibile dal: 17/11/2014
- Etichetta:
- Peaceville
- Distributore: Audioglobe
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L’ottimo “The Fathomless Mastery” aveva visto i Bloodbath bloccare progressivamente il focus della loro ricerca stilistica in una sorta di stagno death metal a metà strada tra vecchia e nuova scuola. La barbarie che da sempre aveva contraddistinto l’operato dei Nostri era stata rinchiusa in suoni e strutture un filo più moderni ed elaborati del solito, con qualche tecnicismo ad emergere con prepotenza qua e là e una gran voglia di omaggiare i Morbid Angel di metà anni Novanta (vedi la ormai celebre “Mock The Cross”). Il nuovo “Grand Morbid Funeral”, tuttavia, cambia radicalmente le carte in tavola. Non sappiamo se le derive in ambienti prog e acustici e il taglio generalmente sempre più raffinato della proposta dei Katatonia abbia in un certo senso dato una scossa – magari inconscia – a Jonas Renkse, Anders Nyström e Per Eriksson nel voler rivedere con urgenza il cammino musicale del loro side-project death metal; oppure se sia stato l’arrivo dietro al microfono di Nick Holmes dei Paradise Lost a far nuovamente prendere alla musica una piega molto primitiva. Di sicuro, almeno dal punto di vista dell’impatto emotivo, ritrovarsi all’ascolto di “Grand…” mette l’utente di fronte ad una curiosa eccitazione: sino a poco tempo fa chi si sarebbe mai aspettato un disco tanto crudo e sporco da questi musicisti? E quando ci poniamo questa domanda pensiamo soprattutto ad Holmes, uno che non ha avuto nulla a che fare con qualsiasi fondamento death metal per più o meno un quarto di secolo. Eppure, “Grand Morbid Funeral” è qui ed è realtà: siamo davanti all’opera più brutale della carriera dei Bloodbath. Il disco riesce prodigiosamente a dare l’idea di un gruppo che sta a tutti gli effetti suonando insieme nella stessa stanza: produzione e mixaggio sono volutamente sudici e disordinati e il tocco live è evidente, con voce e assoli inglobati nel resto, privi di qualsiasi ricamo aggiuntivo per farli risaltare. Tutta la tracklist è segnata da distorsioni che sembrano echi, ritmiche e break che richiamano esperienze lo-fi tipiche della vecchia scuola di Stoccolma, un growling subito riconoscibile, secco e bruciante (incredibile la malvagità che Holmes riesce a ispirare), una melodia macabra e acida, attorcigliata dentro sè stessa e il più possibile dissimulata nelle stratificazioni del tipico suono di chitarra a motosega, ma che ha nella sua stessa essenza la necessità di emergere per conferire un’impronta singolare a quasi ogni pezzo. L’attacco di “Let The Stillborn Come To Me” è quasi più Dismember di “Like An Ever Flowing Stream” e da lì non ci si guarda più indietro. Un album perentorio, lungamente accecato dal rumore, che prova a convincere cercando nel caos le risposte a mille domande, come se un grande disegno fosse autonomamente capace di emergere. Una missione che è sempre ardua in contesti dove le idee ed il genere sono identificati con precisione (in questo caso parliamo esclusivamente di vecchi Entombed/Dismember, Autopsy e Death dei primi due album, senza alcuna concessione ad altri input), ancor più se si ha alle spalle già una mezza dozzina di pubblicazioni proprie. Se non vogliamo quindi promuovere il disco per l’originalità, lo facciamo per l’indiscutibile pregevolezza di grandissima parte dei singoli momenti e per la volontà che emerge – forte e chiara – di non dare per scontato nulla all’interno del proprio sentiero artistico, ma anzi di voler esplorare del tutto quest’ultimo, per poi rivoltarlo come un calzino, lasciando da parte la comodità e la rassicurazione delle posizioni già guadagnate. Probabilmente ad alcuni tanta asprezza, così come l’adesione totale al più puro death metal di una volta (anche a livello di suoni e cantato), non andranno giù, soprattutto dopo un album “patinato” come “The Fathomless Mastery”, ma, dal canto nostro, capiamo in pieno la brama di schiettezza e furia cieca di questi musicisti, che in altre sedi sono sempre più obbligati a non lasciare nulla al caso. “Grand Morbid Funeral”, più di ogni altro capitolo della discografia Bloodbath, è un inno all’essenzialità, alla tradizione e al dolore. Un grande tributo a tutto ciò che era death metal tra il 1987 e il 1991.