7.0
- Band: BLOODBATH
- Durata: 00:44:49
- Disponibile dal: 09/09/2022
- Etichetta:
- Napalm Records
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Si stenta a crederci, ma è già praticamente un quarto di secolo che i Bloodbath scandagliano le varie possibilità sonore del death metal, facendole confluire in una virtuosa miscela che ha ormai dato vita a sei album e ad un paio di EP. Quello che doveva essere solo un passatempo, è rapidamente diventato un vero e proprio gruppo, con un seguito e un hype che in alcuni momenti hanno anche superato quelli di cui godevano le cosiddette band-madri. Oggi si parla dei Bloodbath come di una realtà importante tanto quanto quei Katatonia e Paradise Lost da cui provengono le principali menti della formazione, ed è quindi normale che attorno ad ogni loro nuova uscita si vengano a creare alte aspettative, anche e soprattutto se si considerano le fortunate prove precedenti.
Il nuovo “Survival of the Sickest” arriva a quattro anni di distanza dal precedente “The Arrow of Satan is Drawn”, opera per certi aspetti controversa, nella quale il gruppo aveva provato a miscelare la sua classica impronta con alcune ruvide espressioni black metal, confezionando un album più sfaccettato del solito, anche se non sempre completamente a fuoco. Uno dei principali promotori di quella sterzata, il chitarrista Joakim Karlsson (proveniente dai Craft), ha abbandonato il progetto poco dopo la pubblicazione del disco, e da allora si può dire che i Bloodbath – che nel frattempo hanno reclutato alla seconda chitarra Tomas Åkvik dei Lik – abbiano rivisto i loro piani, dato che “Survival…” si configura immediatamente come un lavoro più propriamente old school death metal, con un suono più rotondo e centrato, quasi a voler rappresentare un tratto d’unione tra il passato remoto e il presente della band. Rispetto a “The Arrow…” – ma potremmo anche aggiungere il macabro “Grand Morbid Funeral” – “Survival…” suona maggiormente ‘pulito’, con le chitarre di Anders Nyström e di Åkvik a intessere trame e riff più flessibili, per uno stile che complessivamente guarda più alla vecchia scuola americana che a quella svedese. L’impatto thrasheggiante dell’opener “Zombie Inferno” inquadra piuttosto bene il taglio del disco: non vi è nulla di particolarmente criptico o chissà quali simbolismi e metafore all’interno dell’opera; i Bloodbath questa volta badano più al sodo, cercando di rileggere il suono di primi Death, Deicide, Obituary o Morbid Angel ed evitando di intrecciare troppi elementi all’interno di ogni traccia. Un’impronta scattante e diretta che comunque non manca di concedere qualcosa a quell’atmosfera che il gruppo ha dimostrato di sapere interpretare alla grande in certi momenti maggiormente lenti e composti del proprio repertorio: qui nulla sfocia in rivoli rarefatti di lontana matrice Katatonia o primi Paradise Lost (ricordiamo una “Church of Vastitas” oppure il finale di “Hades Rising”), ma “Dead Parade” e “No God Before Me” – quest’ultima con tanto di cori in stile “God of Emptiness” – riescono comunque a dare un po’ di respiro e a diversificare la tracklist.
Che il vero smalto e l’effetto sorpresa del ‘back to the roots’ di marca Bloodbath siano terminati da un po’, non sembra insomma turbare più di tanto Nyström, Renkse, Holmes e compagni, che anzi continuano a dispensare il loro tributo con indubbia convinzione. Pezzi come “Carved”, “Born Infernal” (con Luc Lemay dei Gorguts alle backing vocals) o “To Die” (qui l’ospite è l’ex Morgoth Marc Grewe) non saranno una finestra che si apre su una visuale del tutto inedita – né probabilmente riusciranno subito a scalzare certi classici dei primi dischi dalla scaletta dei prossimi concerti – ma certo non risultano inferiori a quanto realizzato da alcuni dei veri padri del genere nel corso degli anni Duemila. Se il loro songwriting resterà sempre così pratico, i Bloodbath potranno senz’altro navigare sicuri verso i lidi della loro personale senilità death metal senza perdere troppi fan lungo la via.