7.5
- Band: BLUT AUS NORD
- Durata: 00:43:58
- Disponibile dal: 25/08/2023
- Etichetta:
- Debemur Morti
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Da Vindsval e dai suoi Blut aus Nord è sempre meglio aspettarsi l’inaspettato, sia dal punto di vista contenutistico che qualitativo. Una carriera, quella dei padrini del black metal francese (insieme ad Antaeus, Deathspell Omega e pochi altri), da sempre sinonimo di scossoni, ribaltamenti di fronte e contraddizioni, il cui succedersi ha portato il pubblico e la critica tanto ad esaltarsi quanto a domandarsi dove finisse l’estro e iniziasse la supponenza di questi prolifici e criptici artisti.
Un discorso che, nel giro di poco più di un anno, si ripete in occasione dei primi due capitoli della trilogia “Disharmonium”, legati dal medesimo filo conduttore di una narrazione ottenebrante, ritorta e spigolosa – figlia a sua volta degli orrori cosmici scaturiti dalla penna di H.P. Lovecraft – eppure distanziati da un’ispirazione che, nel caso del qui presente “Nahab”, si attesta su livelli decisamente superiori a quelli lambiti non troppi mesi fa dal fratello maggiore.
Laddove “Undreamable Abysses”, nel nome di un’aderenza al concept cieca e intransigente, sacrificava (quasi) ogni sviluppo e dinamica scegliendo la via di un suono immobile, distillando umori black metal, dark ambient e industrial in un flusso che suonava davvero come una sfida alla soglia di attenzione e sopportazione dell’ascoltatore, il suo seguito ci riconsegna i Blut aus Nord a cavallo di una proposta sì sperimentale e votata alla dissonanza, ma anche in grado di farsi segnalare per un songwriting degno di questo nome.
Non più un impasto monocromatico di pennellate astratte, bensì una serie di brani ricchi di modulazioni ritmiche e chitarristiche, di interferenze da un Altrove strisciante, di digressioni lisergiche che, nel loro intorpidire progressivamente le sinapsi, trovano una giusta collocazione all’interno del minutaggio complessivo, senza partire per la tangente con ripetizioni interminabili e arroganti. Fin dalla doppietta “Mind Paralysis”/“The Endless Multitude”, si riassaporano quindi il tocco e la sensibilità di una band brava a trasformare l’ascolto della raccolta in una sorta di esperienza recessiva, maneggiando la musica come se fosse una materia plastica con cui dare forma, passaggio dopo passaggio, alle proiezioni raccapriccianti di un inconscio perturbato.
Un ‘ritorno a casa’ che coincide guarda caso con un’aggressività maggiore e con un uso diffuso delle linee vocali (centellinate nel suddetto album del 2022), oltre che con una scrittura non certo avara di momenti ragguardevoli e capaci, a modo loro, di farsi ricordare, fra stratificazioni minuziose e parabole imprevedibili.
Inoltre, sono apprezzabili l’efficacia e l’elasticità di pensiero alla base di alcune trovate estemporanee; i rintocchi melodici di “Nameless Rites”, pur discostandosi dall’approccio freddo e spastico degli altri episodi, figurano ad esempio tra i momenti cardine dell’opera, manifestandosi come timidi raggi di luce nel vuoto tenebroso della tracklist.
Insomma, dopo un disco dal valore più concettuale che concreto, la formazione transalpina torna qui a fare ciò che, per ampi tratti della sua carriera, ha saputo mettere a terra con risultati pregevoli: dare forma all’ignoto attraverso una proposta torbida e autorevole, preoccupandosi più di sollevare domande che di fornire risposte. Non ci resta che aspettare la conclusione della saga per capire effettivamente quale bilancio trarre da questo omaggio agli incubi del Solitario di Providence.