7.0
- Band: BOLESKINE HOUSE
- Durata: 00:40:58
- Disponibile dal: 17/05/2024
- Etichetta:
- Masked Dead Records
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Nel debut album dei Boleskine House il ‘blues’ evocato dal titolo c’è e non c’è, a seconda dei punti di vista.
Sul piano dei riferimenti musicali, si direbbe assente: in questi quaranta minuti di black – doom declinato verso l’alternative (o alternative metal incrostato di black e allargato su estensioni doom), di blues non c’è praticamente traccia.
Se invece con ‘blues’ intendiamo quella malinconia un po’ assente, quel male di vivere quasi di montaliana memoria, allora ce n’è un oceano. “Miserabilist Blues” è, infatti, un album profondamente sentimentale, in cui anche la rabbia sembra avvolta con delicatezza in un drappo di nostalgia. Nostalgia di un tempo che è stato, o forse di un tempo mai vissuto; ma anche nostalgia di ascolti che per molti rimanderanno alla tarda adolescenza o al Sensucht dei vent’anni vissuti nei primi Duemila, quando nel lettore CD giravano i Katatonia e i Paradise Lost, la new wave, ma anche i nomi già affermati della scena black norvegese più incline alla melodia.
L’elegia dolceamara dei Boleskine House sviluppa infatti alcuni stilemi del blackened death e del black atmosferico entro gli assi della dilatazione doom e delle suggestioni emotive del metal alternativo. Il risultato è un album interessante, dalle influenze molto riconoscibili ma dal sapore a suo modo inconsueto e difficile da ricondurre con certezza a qualcosa di noto.
Come tutti i sapori ‘nuovi’, “Miserabilist Blues” potrebbe non convincere al primo morso – anche perché linguaggio del duo milanese non è dei più immediati; ma con un po’ di pazienza, ascolto dopo ascolto, si vedono schiudersi la ricchezza degli arrangiamenti, la finezza di alcune soluzioni compositive e la grande quantità di idee presenti in ciascun brano.
In questo senso, “Black House Painter”, traccia di apertura scelta anche come biglietto da visita del progetto, condensa in modo eloquente i caratteri dominanti della proposta dei Boleskine House. Il bouquet di generi sopra descritto assume qui una connotazione vagamente blackened death, che vira poi su reminiscenze dei Paradise Lost e più avanti, verso la metà della notevole durata della canzone, si apre ad un’ampia interlocuzione tra le chitarre, stavolta pulite e quasi romantiche. Proprio quando il brano sembra avviarsi verso la conclusione, improvvisamente si torna su sferzate più aggressive che poi digradano, come un’onda che si distende sulla battigia, verso un elaborato strascico strumentale.
Si apprezza qui la raffinata stratificazione compositiva che caratterizzerà tutto l’album: chitarre, basso sostenuto e drumming articolato intessono un sontuoso tappeto sonoro sul quale la musica dei Boleskine House si srotola anche nelle sue esternazioni più crude. Al tempo stesso, si notano su questo brano le occasionali prolissità di un progetto ben delineato, ma forse non ancora totalmente a fuoco.
“Need” si muove grossomodo nello stesso territorio del brano precedente, accentuandone la componente epica e i rimandi alla scuola svedese (Katatonia, Opeth); mentre “A Place To Mourn Forever” gioca sui chiaroscuri, alternando sezioni di un black fortemente contaminato agli episodi forse in assoluto più melodici e ariosi di tutto il disco. La chiusura è affidata a una curiosa cover di “When You Sleep”, hit dei pioneri del dream pop My Bloody Valentine. La canzone originale ne esce non diciamo stravolta, ma quantomeno ampiamente processata attraverso il filtro dei Boleskine House, che tutto distende e tutto inabissa. Come il resto dell’album, è un esperimento interessante, il cui gradimento è inevitabilmente molto soggettivo, ma la cui qualità appare difficilmente contestabile.