7.0
- Band: BONGZILLA
- Durata: 00:56:45
- Disponibile dal: 02/06/2023
- Etichetta:
- Heavy Psych Sounds
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Ci sono band che sanno sempre sorprendere, band che fanno il loro compitino, non stupiscono ma portano a casa il risultato, e poi quelle strane creature ibride che, pur suonando la stessa canzone da quasi trent’anni, riescono a pescare qualche passaggio nuovo e donare sorrisi sparsi durante l’ascolto. Ed è inutile sottolineare a quale categoria appartengano i Bongzilla.
Giunto al secondo album post reunion il trio di Madison non cambia minimamente direzione, nemmeno in termini lirici: “Dab City” è un’ode alle più pure forme di THC a all’amata città natale della band, chiamata anche la “Città Folle” (Madison, alias “Mad”, appunto). C’è qualcosa da aggiungere? Ci sembra di no, e così ecco sette cavalcate, – anzi, cammellate – date le ritmiche all’insegna di fuzz, riff circolari, fango fino alle ginocchia e stati allucinatori.
Con la consapevolezza dei prime mover, pur in quadro omogeneo e costante, i Bongzilla riescono a mettere in campo sia brani più psicotropi e rallentati che pezzi più incalzanti: appartengono non a caso al primo gruppo i pezzi più lunghi, che superano nettamente i dieci minuti di durata e la soglia del trip: parliamo della title-track e di “Cannonbong (The Ballad of Burnt Renyolds as lamented by Dixie Dave Collins)”, di cui è impossibile non riportare per intero l’esilarante titolo, che ci fa scommettere anche sulla presenza del vecchio amico e leader dei Weedeater iall’interno9 questo brano malato e decadente, guidato da una cupa linea vocale declamata. Tra questi due mastodonti, “King Of Weed” è più possente e sabbathiana grazie a un riff super ciccione, accompagnato a ritmiche rallentate e a squarci vocali da mente disturbata – che ovviamente apprezziamo. Non mancano nel seguito altri spunti meno ‘banali’ rispetto al costante sound della band; interessante fin dal titolo “Diamonds And Flower”, e anche se dubitiamo sinceramente che Muleboy & co. conoscano e abbiano voluto omaggiare De André, l’afrore di letame e disagio che emana questo pezzo rallentato e mefitico colpisce nel segno. Mentre il finale è affidato ad “American Pot”, lungo e intrigante strumentale dall’approccio più space e desertico, ma del resto i tre non sono nuovi a cessioni in ambito stoner.
Certo, come già rilevato in sede di recensione del precedente “Weedsconsin” e sottolineato in apertura, manca forse il guizzo in più. Ma per una sessione di bong con marciume in sottofondo, i Bongzilla funzionano sempre.