7.5
- Band: BOTTOMLESS
- Durata: 00:46:32
- Disponibile dal: 16/07/2021
- Etichetta:
- Spikerot Records
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Ci sono casi in cui, per il recensore, non è necessario scrivere fiumi di parole per spiegare al lettore il tipo di musica che una band suona, ed il debutto dei Bottomless è uno di questi. E’ infatti sufficiente un solo vocabolo per descrivere l’essenza profonda di questi pezzi: doom, inteso come quello più puro ed essenziale, senza troppi fronzoli, nella tradizione di band quali Black Sabbath, Saint Vitus e Pentagram.
Il progetto nasce nel 2016 per iniziativa di Giorgio Trombino e David Lucido degli Assumption, a cui due anni più tardi si aggiunge Sara Bianchin dei Messa, e fin dall’inizio i tre hanno le idee decisamente chiare sulla strada da intraprendere: “Non c’è spazio per nulla all’infuori delle nostre influenze in questo progetto“. Quindi nessuna mira troppo ambiziosa, solo una sana riscoperta delle proprie radici e, quello che, immaginiamo, sia partito come un divertimento o una valvola di sfogo, ha partorito un risultato eccellente: “Bottomless” è un pugno nello stomaco, tre quarti d’ora di musica diretta e potente, che più sabbathiana di così non potrebbe essere. Qui non c’è spazio per alcuna moda passeggera, solo per del buon, vecchio doom, nella sua forma più primitiva e non adulterata: un suono grasso, basato soprattutto sulle chitarre, che non ostentano unicamente riff pachidermici come si usava un tempo, ma anche assoli a profusione, il tutto raccolto in strutture semplici ma mai banali, con un groove ombroso ed allo stesso tempo uno spiccato gusto per la melodia ed un’azzeccata vocalità alla Ozzy. Ed in questo senso c’è spazio per brani che lasciano il segno: è il caso della anthemica “Centuries Asleep” che, a livello musicale ma anche tematico, oltre ad essere marcatamente anni ’70, si muove nella scia dei Reverend Bizarre più oscuri; oppure dell’altrettanto cupa “Monastery”, una riflessione sulla religione e sui suoi contrasti che può ricordare la spiritualità dei Trouble. Nonostante le influenze siano così riconoscibili ed ingombranti – tra l’altro in un genere che non lascia troppo spazio all’innovazione o alla ricerca musicale – il terzetto riesce nell’intento di comporre qualcosa di personale, pur se smaccatamente legato al passato. Degna di nota la copertina, un’opera del pittore francese del secolo scorso Henri-Joseph Harpignies, che non potrebbe raffigurare meglio il mood contenuto nel disco.
Consigliato a chi tiene il santino di Tony Iommi sul proprio comodino.