6.5
- Band: BPMD
- Durata: 00:38:52
- Disponibile dal: 12/06/2020
- Etichetta:
- Napalm Records
- Distributore: Audioglobe
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Dietro la nascita di un gruppo si celano talvolta storie curiose, simpatici aneddoti che giustificano, o quanto meglio rendono più chiari, i motivi di determinate scelte. A maggior ragione quando di mezzo ci sono musicisti del calibro di Bobby ‘Blitz’ Ellsworth, Mike Portnoy e Phil Demmel, richiamati all’ordine da Mark Menghi (già collega dell’ex Dream Theater nei Metal Allegiance) per dar vita ad una… cover band. Già, una rimpatriata tra amici con l’unico scopo di divertirsi e divertire, tinteggiando di metallo alcune chicche americane del rock anni Settanta. Ma dove nascono questi BPMD (acronimo costruito sulle iniziali dei cognomi dei quattro protagonisti)? Tutto ebbe inizio la scorsa estate quando, dopo aver ascoltato “Saturday Night Special” dei Lynyrd Skynyrd, fu proprio il figlio di otto anni dello stesso Menghi (così racconta il bassista americano) – ormai avvezzo a certe sonorità nonostante le distrazioni chiamate Ed Sheeran e Taylor Swift – ad indirizzarlo sui binari del nuovo progetto. Individuati gli opportuni compagni di merenda, la strada prese immediatamente una sua struttura: ogni componente dovette presentarsi con alcune canzoni da voler riproporre, semplicemente in base ai propri gusti. E se Ellsworth si gettò per esempio su “Evil” e “Never In My Life”, chiamando in causa i Cactus e i Mountain, Portnoy (nella sua collaborazione numero?) scelse “Wang Dang Sweet Poontang” di Ted Nugent e “Toys In The Attic” degli Aerosmith. Delineati i dieci brani, ecco pronto il qui presente “American Made”, promosso dalla Napalm Record, il cui unico intento è dichiaratamente quello di rivisitare in chiave metallica una serie di evergreen del rock made in USA, senza la pretesa di apportare chissà quale stravolgimento (magari in chiave thrash), ma cercando, piuttosto, di inserire qua e là qualche spunto degno di nota. Il solo fatto di ascoltare Bobby Blitz alle prese con pezzi meno elettrizzanti rispetto a quelli tradizionalmente sfoderati dai suoi Overkill era già una curiosità più che legittima da soddisfare.
E allora, come si è comportata questa ‘giovane’ cover band? Diciamo che vi sono episodi meritevoli ed altri che non riescono a reggere il confronto con il passato, anche per una questione legata alla produzione dell’album; i suoni di “American Made”, fin troppo puliti e in alcuni casi piatti e poco coinvolgenti, hanno infatti ben poco da spartire con le atmosfere grezze e più roboanti trasmesse dai brani storici. Se infatti, tra le note positive, l’adrenalina di “Wang Dang Sweet Poontang”, scaricata a suo tempo da Ted Nugent, acquista ancor più tensione grazie all’ugola frenetica di ‘Blitz’, lo stesso non si può dire né per la hit portata al successo da Tyler and company nel 1975, dove è proprio la vocalità dello stesso Bobby ad essere un tantino fuori luogo, in aggiunta ad un impianto globale che lascia per strada quella grinta stradaiola sfoderata in origine dagli Aerosmith, né per la successiva “Evil” dei Cactus, e sempre per il medesimo motivo. Soddisfa invece la ri-esecuzione del successo made in ZZ Top, su cui si erge come autentica protagonista la sei corde di Phil Demmel mentre, a parte il sapore decisamente roccioso con cui è stata rivestita, la versione metallica di “Saturday Night Special” convince solo in parte. Ed è in questa continua alternanza che si segnalano la violenta “Tattoo Vampire” dei Blue Öyster Cult e “D.O.A.” dei Van Halen, qui decisamente più speed con Bobby Blitz che veste egregiamente i panni di David Lee Roth. Ora, aldilà dei giudizi circa l’utilità del full-length, i dieci pezzi estratti rappresentano una gamma perfetta ed esauriente del rock statunitense espresso in quel decennio, iniziato, proprio nel 1970, con la mastodontica “Never In My Life” dei Mountain, dai livelli carismatici semplicemente irraggiungibili, qui fin troppo carica e rovinata da un cowbell a dir poco invadente. A chiudere il cerchio, quasi a voler timbrare con un marchio di fabbrica quanto appena confezionato, ci pensa “We’re An American Band” dei Grand Funk Railroad, festaiola al modo giusto, decisamente più heavy e cazzuta nella versione dei BPMD. I quattro amici al bar si sono quindi ritrovati: circa un nuovo, futuro, incontro francamente abbiamo qualche dubbio; sarà molto più probabile rivederli in azione con le rispettive band. Nel frattempo, se avete voglia di appesantire i pezzi qui menzionati, “American Made” si fa comunque ascoltare con piacere; del resto si tratta solo di puro divertimento.