6.5
- Band: BRITISH LION
- Durata: 01:00:17
- Disponibile dal: 17/01/2020
- Etichetta:
- Parlophone
- Distributore: Warner Bros
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Di sicuro è sempre una gioia per ogni appassionato di musica metal poter ascoltare nuova musica proveniente da una delle poche icone del genere: si può proprio dire, senza timor alcuno di essere smentiti, che questo è il caso di Steve Harris, bassista in forza agli Iron Maiden e vero e proprio personaggio che torna oggi sul mercato discografico col suo progetto extra Iron Maiden.
Già, perchè se il primo album era stato pubblicato sotto il nome del lungocrinito funambolo delle quattro corde, questo nuovo “The Burning” risulta opera di un vero e proprio gruppo, il cui nome è preso dalla precedente prova sulla lunga distanza: il leone inglese. Forse già l’affermazione di trovarsi di fronte ad un vero e proprio gruppo e non ad un – seppur piacevolissimo – diversivo la dice lunga sulle intenzioni che animano la compagine albionica: generalmente si sente una coesione più profonda rispetto a ciò che si era ascoltato con il primo album ma, inevitabilmente, anche un certo stile di fondo che si può definire coerente mostra un po’ la corda sulla lunga distanza. E per lunga distanza si intende sia delle singole tracce che della lunghezza totale del disco, che rischia di far calare qua e là il livello d’attenzione dell’ascoltatore medio: non ce ne voglia il buon Steve Harris ma il punto debole che già risultava da tempi non sospetti è rappresentato dalla voce di Richard Taylor, priva del mordente necessario e della capacità di prodursi in impennate che possono segnare le melodie del gruppo. E così, se l’iniziale “City Of Fallen Angels” e “The Burning” sono ben costruite e risultano orecchiabili fin dal primo ascolto, cincischiano eccessivamente attorno a strutture che indugiano un po’ troppo a lungo: purtroppo questo piccolo peccato di autocompiacimento produce, specie nella prima parte di “The Burning”, brani che sono assolutamente gradevoli ma che ci si aspetterebbe con un guizzo in più, specialmente da un cavallo (pardon, leone) di razza come Sir Harris. Il basso logicamente si sente ed è presente (l’intermezzo roboante di “Father Lucifer”), unitamente a doti compositive che non hanno da inividiare nulla a nessuno, come in “Elysium” e “Legend” (dove per esempio la voce è ben sfruttata in cori riusciti); andando poi ad analizzare tutto il lavoro forse la seconda parte risulta più ariosa, epica e con canzoni veramente degne di nota quali “Land Of The Perfect People” e “Bible Black”, andando a far chiudere “The Burning” con la malinconica “Native Son”. Logicamente il paragone andrà al gruppo di provenienza di Steve Harris e qualche volta scatta quasi un gioco mentale che porta a pensare come suonerebbero queste canzoni con il folletto Dickinson dietro al microfono, forse pure per via di alcune melodie e strutture di chiara ispirazione maideniana.
Un ritorno assolutamente gradito ma che comunque manca di quella marcia in più per non essere visto come ‘il nuovo album del bassista degli Iron Maiden’.