8.0
- Band: BRODEQUIN
- Durata: 00:31:59
- Disponibile dal: 22/03/2024
- Etichetta:
- Season Of Mist
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I vent’anni trascorsi da “Methods of Execution”, ultimo album dei Brodequin prima del loro temporaneo scioglimento, non devono trarre in inganno. Per nostra fortuna, la reunion della death meta band statunitense e questo conseguente ritorno discografico, lungamente atteso anche a riattivazione ormai accertata, non sono avvenuti fuori tempo massimo: i fratelli Bailey e il loro nuovo batterista Brennan Shackelford hanno infatti ancora molto da dire, tanto che questo nuovo “Harbinger Of Woe”, pur presentando qualche differenza a livello stilistico rispetto ai gloriosi esordi, non fatica affatto a collocarsi sullo stesso piano dei tre fortunati full-length che lo hanno preceduto, ormai un paio di decenni fa.
Sin dall’opener “Diabolical Edict”, il disco si presenta immediatamente con un attacco crudo ma al contempo alfiere di piccoli dettagli che lo differenziano dal repertorio precedente: complice una produzione più chiara e scattante, l’impatto generale risulta leggermente meno claustrofobico del solito; troviamo i tipici riff quadrati e percussivi – da sempre tra i veri marchi di fabbrica del gruppo – alternati ad aperture vagamente thrasheggianti e alle consuete parossistiche cascate di blast-beat, con un tecnicismo messo maggiormente in evidenza nella gestione dei cambi di tempo e registro. Qualche scambio e stop’n’go può oggi ricordare i Cryptopsy, mentre sono veri elementi di novità certe punteggiature melodiche, rapidissime ma significative nell’economia dei singoli brani, le quali innescano fugaci parentesi dove le atmosfere si fanno tutto a un tratto sospese, con la chitarra che in qualche caso si apre persino a degli arpeggi, intrecciando note a volte dissonanti e piccoli tocchi picchiettanti e cristallini. Detto ciò, va sottolineato come “Harbinger Of Woe” resti un album profondamente Brodequin, tanto nei riff portanti – inconfondibili nel loro groove e nella loro orecchiabilità, al di là della resa sonora più pulita – quanto nel riconoscibilissimo ruggito di Jamie Bailey, che rimbomba profondamente nella cassa toracica fino ad essere inghiottito nel marasma del comparto musicale.
L’album, profondo, denso e ovviamente di non facile fruizione per chi non ha le orecchie allenate a questo genere di sonorità, riesce a lasciare il segno per la sua vena ispirata, oltre che per una complessità compositiva varia e matura: ci sono i cosiddetti trademark di una volta, spunti innovativi per la band, ma, anche e soprattutto, un impianto a livello di songwriting che appare subito coerente e dinamico, il quale produce canzoni che, prese singolarmente, hanno sempre qualcosa da dire e trovano il modo di farsi ricordare (vedi soprattutto “Of Pillars and Trees” o la title-track, dove in pochi minuti viene condensata una grossa mole di partiture).
La possente tessitura degli statunitensi non è insomma mai stata così espressiva: certo, per molti nulla potrà mai battere le barbarie di un “Instruments of Torture”, ma, davanti a un ritorno di questo calibro, c’è davvero poco da dire, se non che il già prezioso curriculum del trio si è arricchito di un’altra prova magistrale. Bentornati Brodequin!