7.5
- Band: BRUCE DICKINSON
- Durata: 00:58:49
- Disponibile dal: 01/03/2024
- Etichetta:
- BMG
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Partendo dal presupposto che la carriera solista di Bruce Dickinson sia composta da episodi molto diversi tra loro, possiamo idealmente dividerla in due grosse macrosezioni: la prima – che comprende “Tattooed Millionaire”, “Balls To Picasso” e “Skunkworks” – raccoglie il tentativo di Dickinson di affrancarsi dall’ombra ingombrante dei Maiden e rappresenta la fase più schizofrenica del suo percorso, fatto di episodi riusciti alternati ad altri un po’ traballanti, in cui il cantante ha provato a dedicarsi a generi molto lontani dal metal con esiti non sempre eccellenti.
La seconda sezione, invece, è quella in cui il figliol prodigo torna a casa e lo fa nel migliore dei modi possibili: “Accident Of Birth” e, soprattutto, “The Chemical Wedding” sono due veri e propri capolavori, capaci non solo di rivaleggiare, ma talvolta di superare una bella fetta degli album degli Iron Maiden stessi.
“Tyranny Of Souls”, pubblicato nel 2005 a reunion ormai avvenuta, aveva portato avanti il percorso musicale dei due album citati, magari senza raggiungerne lo splendore, ma riuscendo a risultare ancora convincente e coerente con il nuovo corso della carriera di Dickinson; da quel disco sono passati quasi vent’anni, e nel mentre Bruce Dickinson ha ritrovato il suo equilibrio come frontman di una delle band metal più amate del pianeta.
Sappiamo bene, però, quanto il vulcanico cantante/pilota/schermidore/scrittore/podcaster/produttore di birra sia incapace di rimanere fermo, e quindi finalmente abbiamo potuto ascoltare il suo tanto atteso ritorno solista.
Perchè abbiamo fatto questo breve riepilogo della discografia di Dickson? Perchè c’è un errore di fondo su cui rischiamo di cadere nel provare a dare un giudizio a “The Mandrake Project”, ovvero considerarlo solo ed esclusivamente in relazione alla seconda tripletta che abbiamo citato (quella più amata dal pubblico), dimenticandoci dei suoi primi tre album.
Questo lavoro, invece, trova la sua migliore chiave di lettura se viene inserito nel contesto dell’intera carriera del cantante: “The Mandrake Project” è infatti un album eclettico, che si discosta molto da quanto fatto in passato da Dickinson e Roy Z (chitarrista e produttore dell’album), eppure trova legami con quasi ogni capitolo della sua discografia. E la cosa ha perfettamente senso, soprattutto se aggiungiamo alla nostra equazione la costante degli Iron Maiden stessi: nella Vergine di Ferro, il peso di Dickinson è molto elevato, ovviamente, ma è Steve Harris ad avere l’ultima parola su tutto e il bassista non è noto per essere la persona più malleabile del mondo.
Diventa cristallina, quindi, la scelta di Bruce di dare totale sfogo alla sua creatività in un album pieno zeppo di idee, sonorità e stili. “The Mandrake Project” è il disco in cui il cantante, ormai conscio di non dover più dare conto a nessuno, fa semplicemente tutto quello che gli pare.
Non ci addentreremo in questa sede in una nuova descrizione dei brani – per quella vi rimandiamo al nostro track-by-track – ma vale la pena ricordare come, al di là dei due singoli presentati al momento della stesura di questa recensione, l’ascoltatore incontrerà davvero di tutto prima della fine dell’album: spaghetti western (“Resurrection Man”), progressioni arabeggianti (“Fingers In The Wounds”), ballate acustiche (“Face In The Mirror”), maestose opere sinfonico/progressive (“Shadow Of The Gods”) e, sì, anche dei buoni vecchi pezzi heavy metal, come l’ottima “Mistress Of Mercy”.
E’ chiaro che di fronte a tanta spregiudicata libertà ci siano sì cose che funzionano molto bene, ma anche qualche inciampo. Pur con il prezioso supporto di Roy Z a fare da collante, si rimane spesso frastornati di fronte a canzoni che, al loro interno, cambiano stile e atmosfera anche due, tre volte; eppure ascolto dopo ascolto anche questo aspetto diventa parte integrante dell’esperienza di “The Mandrake Project” e, ci spingiamo a dirlo, anche la sua forza.
A conti fatti, l’unico episodio che ci sentiamo di bocciare in toto è “Sonata (Immortal Beloved)”, una non-canzone nata e registrata in gran parte come una lunga improvvisazione, che Dickinson aveva saggiamente scartato più di venticinque anni fa e che oggi vede la luce in una forma che francamente non siamo riusciti a fare nostra. Tutto il resto, invece, ha trasformato l’iniziale sbigottimento in un inaspettato piacere, diverso da quello che avevamo atteso, ma non per questo meno appagante.
“The Mandrake Project”, insomma, è un disco coraggioso, che dividerà il pubblico tra chi lo amerà alla follia e chi, invece, continuerà semplicemente a rimpiangere quei due capolavori di fine anni Novanta. Una cosa è certa: come ci ha detto lo stesso Bruce Dickinson nella nostra intervista (di prossima pubblicazione), è meglio generare una reazione, anche negativa in certi casi, piuttosto che essere accolti dalla più piatta e monotona indifferenza.