7.0
- Band: BURZUM
- Durata: 01:29:46
- Disponibile dal: 13/03/2020
- Etichetta:
- Byelobog Productions
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Il ritorno discografico di Burzum costringe a una lunga, noiosa ma necessaria premessa. Quante volte abbiamo letto sue affermazioni in merito al disinteresse verso la creazione di nuova musica, specie ascrivibile al metal? Quante volte si è perso in dichiarazioni sconvenienti, che per quanto extramusicali rendono difficile separare la sua produzione dal personaggio? Aggiungiamo poi che, nelle stesse parole di Varg Vikernes (o Louis Cachet oggi, pardon), questo disco rappresenta essenzialmente la colonna sonora per il suo gioco di ruolo “Myfarog” ed ecco che il pubblico potenziale si assottiglia enormemente. Perché se la sua incoerenza e le sue deprecabili idee vi creano pregiudizi netti, potete evitare “Thulean Mysteries” a pie’ pari; e anche se cercate tra queste tracce la resurrezione del lato estremo e black di Burzum, sepolto ormai da parecchi anni, se si esclude la sporadica ricomparsa in dischi come “Belus” o “Fallen”. Diverso il discorso se siete fan del lato più minimale e atmosferico di Burzum o se i pregiudizi non vi bloccano, perché in tal caso, pur con la sensazione di un album non indispensabile, l’esito è più che apprezzabile.
La maggior parte dei brani sono brevi frammenti – ricordatevi che l’idea è di proporre un’immaginaria colonna sonora – dall’aria quasi incompiuta, che come dichiarato da Varg si sono creati da soli. E resta il dubbio in molti casi se Varg volesse solo suggerire atmosfere, se abbia prevalso la pigrizia nel completare idee anche interessanti o piuttosto si prenda quasi gioco dell’ascoltatore; anche perché in alcuni di queste tracce brevissime, come in “The Loss Of A Hero”, “Gathering Of Herbs” o “The Dream Land”, ci troviamo davanti ai passaggi più interessanti e potenti. Che proiettano, o meglio introiettano, l’ombra lunga di giganti del krautrock più trascendente, pensiamo a Popol Vuh e Tangerine Dream, che di certo non il solo Euronymous ascoltava nelle folli annate di primi Novanta. E che trovano in realtà una perfetta realizzazione nella lunga ed emozionante “The Password”, quasi quindici minuti di space-synth di altissima qualità, sul finale del disco.
In generale la matrice portante dei brani è tipicamente ambient, nel solco dei dischi registrati in carcere, ma in alcuni casi la sua visionarietà più oscura emerge potente, ricordando la potenza espressiva minimalista che ha reso unico “Filofosem”; abbiamo passaggi di puro folk, nello stile degli ultimi tre dischi, ivi compreso l’uso di strumenti tradizionali, presumibilmente resi tramite synth. Altri momenti hanno un approccio più inedito, vicino quasi a quanto proposto da Wardruna ed Heilung (“Heill Auk Sæll”, “The Great Spell”, “Thulêan Sorceryl”), mentre diversi brani vivono di sensazioni afferenti al dungeon synth (“The Lord Of The Dwarves”, le sferzate della seguente “A Forgotten Realm”). Un genere che del resto Burzum può ben fregiarsi di aver inventato assieme a Mortiis, pur su coordinate diverse, e guarda caso fa capolino sotterraneamente nelle tracce più lunghe e studiate; come l’affascinante “The Road To Hel”, “Skin Traveller” o la rabbrividente titletrack, che pur senza spingere sull’acceleratore, riportano la mente alle tracce più sperimentali dei suoi primi dischi. Parimenti i numerosi passaggi acustici sono emotivamente potenti, anche quando molto scarni (“The Ettin Stone Heart “, “Heill Óðinn Sire”), e insomma c’è molta carne al fuoco, in questa ora e mezza di ascolto, che vi sorprenderete ad ascoltare diverse volte a caccia degli elementi ricorrenti o dei brevi incisi ipnotici nascosti qua e là.
Ma soprattutto funziona molto bene l’ascolto complessivo: serve solo la pazienza di scordarsi ancora una volta le sue aberranti idee – invero sempre tenute fuori dalla musica, e di non tacciare a priori questo lungo album di furba mossa commerciale; un’accusa che a ben vedere fa sorridere, visto che non sarà la curiosità sviluppata da questo disco a far decollare le vendite di Myfarog (con cui per inciso condivide la copertina, una bella illustrazione del solito Kittelsen), o a portare in classifica Burzum. Ma se non riuscite a separare il musicista dall’assassino o dal ‘pensatore’ neopagano suprematista, tenetevene alla larga: non è proprio un disco da affrontare con pregiudizi o con un ascolto frettoloso.