8.0
- Band: CANCER BATS
- Durata: 00:36:57
- Disponibile dal: 15/04/2022
- Etichetta:
- Bat Skull Records
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Ottobre 2021, fulmine a ciel sereno in casa Cancer Bats: Scott Middleton, chitarrista, membro fondatore e pietra angolare della band, annuncia il suo addio. Nessuno screzio, nessun dissidio, solo la voglia di dedicarsi ad altro, nel suo caso ampliare e sviluppare il suo lavoro di produttore musicale. Una mossa a lungo meditata, crediamo, che non coglie impreparati gli altri tre membri. In piena amicizia salutano Scott e si riorganizzano per proseguire come terzetto. A fari spenti, con promozione quasi nulla e di fatto autoproducendosi, il trio non ci mette molto a dare un seguito al fortunato “The Spark That Moves” del 2018, ripresentandosi questa primavera con un lavoro indemoniato e in perfetto stile Cancer Bats, il qui presente “Psychic Jailbreak”. Al posto di Middleton, è il bassista Jaye Schwarzer a occuparsi delle parti di chitarra, e non possiamo che felicitarci di come egli compia in pieno il suo dovere, non tentando affatto di emulare il caratteristico stile di Middleton. Le sfumature southern, i riff pastosi e sfumati di sludge, le soliste colme di feeling del precedente titolare dello strumento sarebbero state difficili da riproporre con identica vitalità, allora Schwarzer sceglie soluzioni più istintive, crude e dirette, con un suono di chitarra più grattato di quello di Scott e una generale essenzialità a permeare il suo operato. Ciò indirizza in modo chiaro lo stile del disco, non poi così distante in fondo da quello di “The Spark That Moves”, anche se rispetto al full-length di quattro anni fa aggiunge pesantezza, rumore e aggressività. Si va perciò all’assalto, con varie gradazioni di groove, ignoranza e litri di sudore gettati nel suonare, lasciando inalterato nel profondo il mix di punk, sludge, hardcore e piccole influenze sudiste che ha reso nel tempo leggendaria la formazione.
La line-up a tre elementi ci pare che vada a riconnettersi, nella sfrontatezza, nella capacità di coinvolgere in pochissime note e scatenare l’inferno, ai primi due album “Birthing The Giant” e “Hail Destroyer”, sfrondando delle (molto relative, intendiamoci) finezze comparse nei lavori successivi. Liam Cormier si destreggia con la solita felice espressività tra urla selvagge e un’interpretazione sentita e col cuore in mano, tra vocalizzi più rochi e gutturali e parlati incalzanti, con le parole che fluiscono veloci e le seconde voci a rimbombarci addosso, innalzando il livello di caos. Pleonastico affermare – serve ricordarlo solo per chi conosca appena la formazione – quanto ogni singola nota sia pensata e modellata per deflagrare nell’intero suo potenziale dal vivo: è percepibile che la ragione, la riflessione, si spendano soltanto per rendere ancora più contagiose e distruttive le canzoni, incastrando i pochi rallentamenti e prese di fiato per centuplicare l’esplosività delle seguenti ripartenze.
Irradiano una luce particolare le composizioni dei Cancer Bats, con un grado di imprevedibilità e di collerica follia costantemente presenti nonostante, a ormai sedici anni dall’esordio, i connotati cardine della proposta dei canadesi siano mandati a memoria e non subiscano sconvolgimenti di sorta. Ci possiamo allora buttare a capofitto in una selva di anthem rapidi, sferzanti e adrenalinici, con l’apertura di “Radiate” a dettare le condizioni. Ci sono riff di tutto rispetto a lanciare nella bolgia, il clima è bollente, un groove grasso e ribollente tiene sulla corda, a concatenare in un abbraccio strettissimo “The Hoof”, “Friday Night”, “Pressure Mind”. Poche le concessioni a un ricettario più avvolgente e dai sulfurei toni sabbathiani (a cadenza regolare la band ama esibirsi sotto il nome di Bat Sabbath, suonando interi set di cover della band di Tony Iommi): “Hammering On” e (in parte) la titletrack ripercorrono efficacemente sentieri battuti durante “Dead Set On Living” o “Searching For Zero”, con inalterata brillantezza. Infine, si segnalano almeno un paio di tracce più articolate e con interventi chitarristici piuttosto elaborati, come “Crocodiles” e “Rollin Threes”, che mostrano tutta la bravura di Schwarzer alla chitarra. Produzione sporca e ruvida come dovrebbe essere per un’uscita di questo tipo, durata dei singoli episodi e dell’intera raccolta compatte: non c’è una virgola fuori posto, tocca solo alzare il volume e farsi travolgere!