6.5
- Band: CANDLEMASS
- Durata: 00:53:51
- Disponibile dal: 18/11/2022
- Etichetta:
- Napalm Records
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Quando nel 2018 i Candlemass si sono riuniti al loro primo cantante Johan Längquist, siamo stati colti un po’ alla sprovvista. Voce principale nel primo album “Epicus Doomicus Metallicus”, sul quale figurava sostanzialmente come ospite, non aveva prodotto alcunché di ufficiale in altri progetti: in tempi recenti lo si era visto per alcuni concerti speciali assieme ai Candlemass stessi, omaggianti proprio l’esordio discografico del gruppo, in quelle che erano apparse comunque estemporanee apparizioni, per quanto di speciale significato. Pertanto il suo ingresso in pianta stabile in formazione – scalzando Mats Levén dal ruolo – aveva un sapore strano, come di voler riprendere il tempo per i capelli senza avere esattamente idea di come muoversi. Quella che pareva un’operazione nostalgia dalla vacillante possibilità di prosecuzione si è rivelata, finora, una nuova rinascita per un gruppo che ha vestito più volte i panni dell’araba fenice.
Così Leif Edling, principale songwriter che ha rimesso mano ai capisaldi sonori della sua band principale più e più volte negli anni, con l’alternarsi di cantanti dai timbri molto differenti gli uni dagli altri, è ripartito da una formula scura, antica, doom secondo canoni che più classici non si potrebbe. Constatato in tempi brevi che la voce di Längquist sapesse ancora graffiare e ammantare le note di una crepitante atmosfera dannata, il gruppo non si è fatto problemi nel suonare doom nel senso più puro del termine, senza alcuna remora nel seppellire definitivamente le ariosità degli anni di Messiah Marcolin e i contrasti garantiti dalla duttile vocalità di Robert Lowe, oppure le venature hard rock effuse da Levén.
“The Door To Doom” convinceva con una serie di pezzi potenti, roboanti, ritmati, di inattaccabile fedeltà alla tradizione. Quanto di più vicino ai loro esordi i Candlemass potessero scrivere, pur con opportuna rivisitazione e contestualizzazione ai tempi attuali. Un solco tracciato profondamente, dal quale non si esce nemmeno per “Sweet Evil Sun”, disco che va sul sicuro, dando ai fan dei Candlemass esattamente quello che potrebbero aspettarsi. Il disco compendia un selezionato campionario di quello che intendiamo per doom metal, distillando con sicurezza e senza sorprese o avventurosità quanto siamo soliti attribuire a una band come questa. L’epicità si fonde all’oscurità e alla torbidezza, regalandoci episodi accomunati da un chitarrismo roccioso e magmatico, una base severa spennellante di uno strato nero, spesso, impenetrabile, l’intera tracklist. Da qui si divaga – moderatamente – introducendo vaghi sentori melodici e svolazzi solisti a loro volta grevi e virati a coloriture nerastre. È un’ambientazione soffocante, quella dell’album nella sua interezza, con i refrain a fungere generalmente da unico momento liberatorio in un conclave di riff bituminosi e perennemente accigliati. L’andamento squadrato, martoriante su tempi lenti ma mai troppo immoti – cosa che del resto non appartiene all’identità della formazione – è un altro motivo unificante della narrazione, che, come avrete capito a questo punto, non prevede il ricorso a grosse variazioni tematiche.
Ed è questo in fondo il principale difetto di tutta l’operazione, ovvero l’essere molto conservativa: i Candlemass attuali si crogiolano in un marmoreo immobilismo, pensando che il talento innato e non disperso nello scrivere buone canzoni ed evocare atmosfere sulfuree basti e avanzi per ammaliare. È vero in parte, perché la qualità compositiva media è più che accettabile ma nient’affatto sensazionale. Quando le tonalità si fanno più accese, sia l’innalzamento all’epico di “Angel Battle”, la drammatica delicatezza di “When Death Sighs” (egregio il duetto di Längquist con Jennie-Ann Smith degli Avatarium), la malvagità sprezzante di “Devil Voodoo” il valore dei pezzi sale; altrove, pensiamo alla titletrack o all’anthemica “Scandinavian Gods”, vi è un apprezzabile sfoggio di mestiere e durezza metallica, ma non si raggiungono risultati memorabili. Per chi scrive, inoltre, Längquist rimane un buon cantante, ottimale per questa versione così plumbea e cattiva dei Candlemass, però non è un fuoriclasse come ne sono visti in passato tra le fila degli svedesi: questo fa sì che le sue linee vocali non riescano da sole ad elevare chissà quanto una composizione, anche se la sua prestazione non si presta a critiche particolari. In sintesi, siamo in presenza di un capitolo discografico discreto, che se amate i Candlemass molto cupi e doom nel midollo potrà darvi buone vibrazioni: nel caso desideriate atmosfere più elaborate, dinamismo e qualcosa di inedito, rimarrete delusi.