8.5
- Band: CANNIBAL CORPSE
- Durata: 00:37:38
- Disponibile dal: 20/05/1996
- Etichetta:
- Metal Blade Records
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L’annuncio a sorpresa sulla pubblicazione del nuovo album dei Cannibal Corpse, il sedicesimo di una carriera a tutti gli effetti monumentale, sicuramente tra le più iconiche e rappresentative del movimento death metal, ha fornito agli appassionati l’ennesimo pretesto per ripercorrere le tappe di questa marcia sanguinaria iniziata nella Buffalo di fine anni Ottanta, proseguita sotto il sole della Florida e segnata – a poco più di un lustro dal suo avvio – da un evento che ne avrebbe reindirizzato in maniera decisiva lo svolgimento, contribuendo a fare della band guidata da Alex Webster e Paul Mazurkiewicz quella macchina per uccidere che conosciamo ancora oggi, ingegnosa e oliatissima.
Da qui, la scelta di dedicare lo slot odierno dei Bellissimi a “Vile”, opera divisiva che per molti, nel momento in cui irruppe sugli scaffali dei negozi nel maggio ’96, rappresentò uno schock a sua volta declinabile in due varianti di gradimento diametralmente opposte: rimpianto per la fine di un canone estetico e artistico portato avanti grazie (e soprattutto) alla figura di Chris Barnes, frontman originario che con i suoi testi e la sua ugola aveva contribuito a rendere iconici i lavori precedenti; esaltazione per un approccio che non andava ovviamente a tradire quello passato, ma che al contempo mostrava una ricerca più approfondita della tecnica e della velocità, con l’ingresso di George “Corpsegrinder” Fisher, ‘scippato’ ai colleghi Monstrosity, a settare un nuovo standard di potenza e frenesia a livello vocale. Un cambio di line-up (e di stile) da cui alcuni fan non si sono mai effettivamente ripresi, orfani dell’impatto barbaro e martellante di un “Tomb of the Mutilated” e del suo racconto ad opera di un orco depravato al microfono, eppure coerente alla parabola evolutiva del progetto, la cui voglia di migliorarsi e di crescere, disco dopo disco, non è mai stata nascosta.
Già due anni prima, con l’uscita di “The Bleeding”, la band si era resa protagonista di un grosso passo in avanti, potendo finalmente permettersi di sedere al tavolo di Obituary, Morbid Angel e Deicide senza troppi complessi di inferiorità legati al songwriting, ed è naturale pensare che, volendo insistere su quella scia, la presenza di Barnes avrebbe limitato non poco le ambizioni dei compagni. D’altronde, alla già nota predilezione per la componente groovy, poi sfociata nelle istanze cavernicole dei Six Feet Under, iniziava ad aggiungersi un cantato alla sua prima fase di svigorimento, il quale non avrebbe mai retto i ritmi e l’intensità che stavano prendendo forma nella testa del Cadavere Cannibale, e che sarebbero poi diventati gli elementi fondanti del resto della discografia. Proiettiamoci per un istante al 2006 e ai due minuti di “The Time to Kill Is Now”, opener del capolavoro “Kill”: riuscite ad immaginare un Barnes di dieci anni più vecchio dettare i tempi di una simile carneficina? O ancora, recuperate il bootleg “Created to Kill”, con le versioni demo di alcune canzoni di “Vile” interpretate dal leader dei SFU, e paragonatele a quelle ufficiali finite sull’album: lo strapotere di Corpsegrinder è evidente, così come il suo essere perfettamente calzante alla natura spasmodica e feroce della musica. Un mostro di tecnica, fiato e controllo che, fin dall’urlo lancinante di “Devoured by Vermin”, mette in chiaro le cose cavalcando – senza esserne disarcionato – le impetuose e fittissime trame prodotte dalla coppia d’asce Jack Owen/Rob Barrett e dalla sezione ritmica dei suddetti Webster/Mazurkiewicz, in un flusso che attinge dalla cupezza atmosferica di “Tomb…” (evidente anche nei toni del sadico artwork di Vincent Locke), si innesta sulle evoluzioni e sugli avvitamenti di “The Bleeding” e si espande in una direzione ancora più metodica e brutale.
Un’aggressione che non passa più solo dalla pancia e dai bassi istinti, quindi, ma anche e soprattutto dalla testa, come se la tracklist fosse stata studiata con cura da un maniaco omicida, i cui episodi – pur non vantando il livello di presa e ‘orecchiabilità’ di hit come “Make Them Suffer” o “Kill or Become” – avanzano con cadenza quasi matematica tra raffiche di pugnalate da mozzare il fiato (“Mummified in Barbed Wire”, “Puncture Wound Massacre”) e digressioni più tortuose che spezzano il ritmo senza allentare la morsa generale sull’ascoltatore (“Bloodlands”, “Monolith”).
Parliamo di un disco-spartiacque come pochi altri nella carriera di una death metal band (a tal proposito, potremmo citare “Formulas Fatal to the Flesh” dei Morbid Angel); un crocevia da cui i Cannibal Corpse ripartirono tenacemente per conquistare con la loro costanza e la loro solidità il trono del genere, scalzando chi – nella prima metà degli anni Novanta – vi sedeva forte di una classe effettivamente superiore. L’inizio di un percorso che da allora non ha mai smesso di affinarsi e – a seconda delle occasioni – di guardare avanti o indietro per non infilarsi in un loop di ripetizioni asfittiche (la varietà di “Kill”, i tecnicismi e le finezze di “Torture”, la vena thrasheggiante di “Red Before Black”, ecc.), sfidando le convinzioni di chi vorrebbe etichettare le opere del quintetto come intercambiabili fra loro. “Stab, hack, slash, kill!”