9.5
- Band: CARCASS
- Durata: 00:41:55
- Disponibile dal: 18/10/1993
- Etichetta:
- Earache
- Distributore: Self
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Immaginatevi nel 1993: portate i capelli lunghi e vi piacciono tanto questi inglesi che sono partiti con qualcosa di pazzesco e splatter come “Reek Of Putrefaction”, col suo grindcore primigenio e grezzo, sono passati poi a qualcosa di vagamente più death oriented come “Symphonies Of Sickness” e ci hanno fatto omaggio giusto un paio d’anni prima di un capolavoro quale “Necroticism – Descanting The Insalubrious”, che ha riscritto nuovamente la storia del gruppo stesso con la sua ‘modernizzazione’ di suono e concetto, inteso anche come pura composizione. Immaginatevi come vi potreste sentire dunque di fronte al nuovo lavoro di questi strani tizi,“Heartwork”, che si presenta come un’ulteriore evoluzione, un nuovo modo di intendere la propria musica, una deviazione verso un’apertura melodica che, però, non significa ammorbidimento del suono, bensì, più che altro, uno smussamento dei vari caratteri da cui è formata la creatura Carcass; un sapiente lavoro di affinamento iniziato anni prima e che porta alla creazione di un album praticamente perfetto da parte di un gruppo rodato più che mai (alla seconda prova in studio con la formazione che presenta Michael Amott, il cui apporto nella creazione del sound è di certo fondamentale). Anni di dedizione e lavoro ci presentano dunque una coesione speciale per un album di fatto death metal, che non rinuncia alle sue radici ma semplicemente le attualizza in qualcosa che non ha esempi ma solo epigoni, un suono che aggiunge melodia senza però rinunciare all’aggressività, che leviga gli angoli ma che non nasconde ricercate spigolature. La band è in forma smagliante: le chitarre di Amott e Bill Steer sono un viavai di invenzioni e riff chirurgici, assoli meravigliosi e intrecci magistrali; la batteria di Ken Owen non va mai oltre certe dosi di inventiva o tecnica ma mantiene la base ritmica del disco precisa e potente; Jeff Walker ha una voce abrasiva e sguaiata, ma mai volgare, una delle poche nel genere che riescano ad essere riconoscibili immediatamente, e anche i temi si fanno meno puerili, in qualche modo più seriosi mantenendo però un’ironia caustica e feroce. Un’opener come “Buried Dreams” mette immediatamente in chiaro il nuovo corso con armonie riconoscibili sin dalla prima nota, groove palpabile, assoli ragionati e una bella parte centrale melodica, così come “Carnal Forge” rassicura tutti sul fatto che i Carcass sono sempre feroci e capacissimi di andare in blast beat con un brano veloce di puro death. “No Love Lost” è di fatto un classico, un brano che può prendersi il lusso di suonare forse un po’ meno ispirato degli altri eppur rimanere tra i brani più conosciuti di sempre in ambito death metal; mentre quello successivo, quello che dà il titolo all’album, è il classico per eccellenza, quella canzone che chiude i concerti, quella che anche quando ci sentiamo troppo stanchi per pogare ci obbliga a stare in mezzo al pit: “Heartwork” è un pezzo perfetto, quell’inizio, quella strofa, quel testo, quel finale sono il fiore all’occhiello di un lavoro sopraffino che giustamente viene celebrato da fan e band da più di vent’anni a questa parte. “Embodiment” rallenta e appesantisce ulteriormente, le sue chitarre si rincorrono e portano l’ascoltatore a quello che per chi scrive è il momento preferito del disco e di ogni live dei Nostri che si rispetti: “This Mortal Coil” è forse il brano più legato alla tradizione, in cui le reminiscenze sono chiare e forti come non mai; tra una strofa che va in crescendo, un riff portante fenomenale e una serie di blast efferati non potremmo chiedere di più, ed ecco che ci troviamo di fronte ad un’altra fase di questa mutevole raccolta di canzoni. “Arbeit Macht Fleisch” guarda verso “Necroticism…” con un riff velenoso ed un cantato di Walker sempre più spietato, mentre “Blind Bleeding The Blind” corre a briglia sciolta ma mai dissennatamente, anzi cucendo le diverse sezioni con perizia medica invidiabile e rendendoci partecipi di un unico grande momento lungo quarantuno minuti, invece di singoli brani. Ci troviamo, dunque, al cospetto della doppietta finale, la ruggente “Doctrinal Expletives”, impreziosita da solismi docili come una coltellata, e la chiusa ad opera di “Death Certificate”, un epilogo esistenziale che mutua tanta violenza quanta melodia dalle esperienze precedenti, sa essere marziale ed effimera, faceta eppure dannatamente sul pezzo. “Heartwork” è un disco imprescindibile qualunque possa essere il vostro sottogenere preferito, uno di quegli album senza età che suona fresco anche dopo un quarto di secolo, secondo forse solo al suo predecessore per quanto a impatto e singole composizioni, ma a nessuno per quanto riguarda la perfezione in fase di scrittura e l’importanza che avrà negli anni a venire su centinaia di nomi che hanno poi saputo sviluppare le diverse intuizioni qui partorite. Necessario.