10.0
- Band: CARCASS
- Durata: 00:48:08
- Disponibile dal: 30/10/1991
- Etichetta:
- Earache
- Distributore: Self
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Potremmo aprire e chiudere questa recensione con un singolo vocabolo che spiegherebbe in maniera sintetica ed esaustiva ciò che c’è da dire di questo album, e questa parola è “capolavoro”. Tuttavia, a vent’anni dall’uscita di questa pietra miliare del metal in generale ci sembra quanto meno doverosa una breve disamina di quelli che sono gli elementi di forza di un disco che ha fatto la storia di un genere e non solo. “Necroticism-Descanting The Insalubrious” è il primo lavoro dei Carcass come quartetto, ed è anche il primo con Michael Amott (Carnage, Arch Enemy) alla chitarra. Dopo un debutto primitivo, ma di indiscussa importanza storica come “Reek Of Putrefaction” – uno dei primissimi album grind – e dopo un primo accenno evolutivo verso territori più prettamente death metal come “Symphonies Of Sickness”, i Carcass con il loro terzo capitolo hanno dato vita a qualcosa di assolutamente unico ed irripetibile. Questo album sembra avere come obiettivo quello di evolvere ancora quanto iniziato con “Symphonies Of Sickness”, rendendo ancor più tecniche e complesse le strutture dei brani, introducendo anche una certa dose di melodia. Discutendo di “Necroticism…” non parliamo di un disco, come si suol dire, di transizione, bensì di un album coeso e in qualche modo unico nel suo genere che rivela una maturità e un’intelligenza compositiva senza eguali, oltre ad essere personale e riconoscibilissimo nel suo stile, a questo punto, inconfondibilmente Carcass. Sin dalle primissime note di “Impropagation” l’ascoltatore si troverà catapultato in una sintetica dimensione parallela angosciante, claustrofobica e terribilmente immonda, fatta di intrecci chitarristici assurdi, cambi di tempo da cardiopalma, interferenze solistiche di un gusto melodico sopraffino e di rara bellezza. La voce di Jeff Walker è qualcosa di inspiegabile, non è un growl, non è uno scream, non è un grattato in stile thrash, bensì una mistura abrasiva di tutte queste cose, un corrosivo e incredibilmente energico modo di vomitare testi folli sull’uso che si potrebbe fare con i cadaveri e via dicendo. La fase ritmica, a cura di Ken Owen, è chirurgica, quadrata, essenziale, marziale e cavalcante. Le parti in blast beat risentono ovviamente ancora di una certa indole grid arrivando da un momento all’altro come vere e proprie rasoiate, facendo da contraltare a parti più rallentate e, soprattutto, a fluidi e imprevedibili cambi di tempo. Basta citare, a titolo esemplificativo, episodi come l’inizio della mitica “Corporal Jisgore Quandary” – un vero e proprio cavallo di battaglia della band- oppure la lunga e meravigliosa “Inpropagation” dove tutta l’architettura del brano si intreccia e si evolve assieme ad un lavoro chitarristico a dir poco magistrale. A questo proposito, crediamo sia giusto spendere due parole sulla coppia d’asce Bill Steer e Michael Amott che da vita ad un vorticoso intreccio di riff secchi, taglienti, dove si alternano momenti di opprimente e cupo death metal, ad aperture melodiche, a tratti persino vagamente epiche, che rendono fruibili questi brani lunghi, complessi ed intricati. Poi ci sono questi assoli melodici, dall’indole quasi rock’n roll, che arrivano come bagliori di luce nel bel mezzo di una tempesta. Tutto questo è sempre al servizio dei brani e mai un mero sfoggio di tecnica, nonostante sia lampante che la preparazione dei nostri sia tra le migliori. Evitiamo di dilungarci nelle descrizioni di tutte le singole canzoni che compongono questo gioiello di album, che comunque non vive di un solo calo di tensione ed ha il peso specifico di un vero e proprio monolite. Se ci chiedessero da dove partire per capire il death metal, “Necroticism” sarebbe probabilmente uno dei primi album che ci scrive consiglierebbe; un disco fondamentale non solo per il death metal, ma per tutto quanto il metal a trecentosessanta gradi, e che crediamo che chiunque sedicente appassionato di questo genere dovrebbe aver almeno provato ad ascoltare. Come si diceva, avremmo potuto semplicemente dire “capolavoro”…