6.5
- Band: CARCASS
- Durata: 00:49:00
- Disponibile dal: 17/09/2021
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Warner Bros
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Istruzioni per l’uso: da ascoltare tante volte. Non lo diciamo noi, sono parole di Bill Steer, da sempre principale compositore dei Carcass, consapevole del fatto che “Torn Arteries” non sia un album di presa immediata, immerso com’è in una evasiva complessità e in uno stile ondivago, conseguenze di una gestazione lunga, più volte interrotta ora dai tour di supporto al fortunatissimo “Surgical Steel”, ora dalle note ripercussioni della pandemia. Dopo il ritorno alle origini – o perlomeno alle sonorità di maggior successo – effettuato con il suddetto ultimo album, il gruppo britannico cerca qui di svincolarsi dalla pressione e dalle aspettative dei fan più oltranzisti, optando per un sound meno rigido e inquadrato, in cui si avverte con meno frequenza quella innata capacità di sintesi delle diverse influenze musicali (death-grind, thrash, NWOBHM) che in passato marchiò a fuoco buona parte dello stile Carcass.
Il grande successo di certe vecchie prove torna sempre a chiedere il conto, come se si trattasse di un debito irrisolto, una pietra angolare con cui doversi troppo spesso confrontare e che pesa come un macigno: “Torn Arteries”, di conseguenza, non è un “Surgical Steel pt. 2”, bensì un disco in cui Steer e soci cercano di suonare senza fare troppi calcoli, prendendo alcuni degli elementi costituenti del loro tipico stile e rielaborandoli in canzoni che di rado seguono il percorso tracciato dal brano che le ha precedute.
“Torn Arteries” procede per strappi, alternando soluzioni che sprizzano familiarità e rimandi alla collaudata formula di “Surgical Steel” ed esperimenti più o meno vistosi e arditi, a volte circoscritti nel recinto di un groove che vorrebbe magari traghettare ai giorni nostri il death’n’roll del sottovalutato “Swansong” e altre influenze heavy rock che esplodono soprattutto nell’interplay fra chitarre soliste. Così, nonostante un pezzo come “Dance of IXTAB” abbia senz’altro le qualità di singolo, con il suo incedere marziale espressamente studiato per restare subito in testa, ed episodi come la titletrack e “The Scythe’s Remorseless Swing” mantengano intatta una formula diretta ed aggressiva, pur con tutti i tecnicismi del caso, la tracklist nel complesso prende una via contorta, in cui i Carcass sciorinano una vorticosa spirale di cambi di registro e contrappunti che si srotolano con andamento imprevedibile, passando anche nell’arco dello stesso brano da derive bluesy a forti accelerazioni su riff chirurgici che puntualmente – come era avvenuto su “Surgical Steel” – cercano di rievocare i fasti di “Necroticism” o “Heartwork”.
Se in passato la band aveva sempre dimostrato una ammirevole capacità di gestione della transizione, a livello sia di arrangiamenti che compositivo, su “Torn Arteries”, forse anche per qualche blackout di ispirazione, lo sviluppo delle canzoni risulta più brusco, facendo sì che spesso venga meno quella forte immediatezza che ha contraddistinto la musica degli inglesi in più fasi della propria carriera. L’album, insomma, possiede poche hit prontamente assimilabili come una “Ruptured in Purulence”, una “Buried Dreams”, una “Tomorrow Belongs to Nobody” o una ”Unfit for Human Consumption”: la tracklist sembra invece essere scaturita da una collisione di influenze e da un flusso continuo di scambio, di ripensamenti e frenesie che attingono direttamente dal vasto bagaglio musicale di Steer; questa convergenza si manifesta così nel ritmo insolito della succitata “Dance of IXTAB”, ma anche nel girovagare simil-progressive della lunghissima “Flesh Ripping Torment Limited” e nello sconclusionato battimani all’interno di “In God We Trust”. Una trasversalità dai risultati altalenanti, la quale a tratti sembra pure volersi aprire ad una spontaneità divertita e autoironica, con cui il gruppo cerca appunto di scansare i paragoni più ingombranti. Un’attitudine anche apprezzabile, che però non riesce a nascondere del tutto la macchinosità o la semplice inadeguatezza di almeno un paio di episodi, francamente sin troppo blandi o confusi.
“Torn Arteries” perciò ha il pregio di non lasciarsi declinare univocamente e di tentare con onestà qualche nuova via, anche affidandosi a una produzione più calda e graffiante, ma a livello strettamente di songwriting perde il confronto diretto con un’opera tanto ruffiana quanto certamente compatta e ispirata come “Surgical Steel”, fotografando una band sempre perfettamente riconoscibile, qui però nel mezzo di una fase vagamente interlocutoria della propria carriera.