7.5
- Band: CARCHARODON
- Durata: 00:52:02
- Disponibile dal: 05/04/2013
- Etichetta:
- Altsphere Production
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Cari lettori e amici, chi scrive (ormai ben oltre la soglia della vecchiaia, individuata dal trentesimo anno di vita) non ricorda un periodo parimenti fiorente per il metallo italiano come quello attuale: è tutto uno sbocciare di gruppi, in particolare estremi, che raramente sfornano album di livello meno che discreto, emancipandosi dal tacito adagio “italiano, allora power metal” (ve li ricordate quei “tristi” anni sul finire dei 90? E’ stata dura, ma pare che ne siamo usciti!). Doveroso far notare che tale processo non ha affatto carattere casuale: magari oggi sembra un’ondata tanto senza precedenti quanto improvvisa, ma è innegabile come sia frutto del lavoro incessante ed appassionato di gruppi che si sono rimboccati le maniche (volete dire, ad esempio, Hour Of Penance? Siamo d’accordo) e che, duramente, sono riusciti a risalire la china sovvertendo qualche preconcetto e, soprattutto, tirandosi appresso molti tra coloro venuti dopo, grazie al crescente interesse verso la scena nostrana (i The Secret – per dire – stanno su Southern Lord, mica poco!). Metteteci pure “la crisi” che fa girare i “cosidetti” fino al calor bianco, generando quella riserva d’energia che può sfogarsi tanto come follia criminale quanto come espressione estrema, e il quadro sarà completo. Oggi peschiamo dal calderone i Carcharodon, che vengono dalle malsane paludi liguri di Alassio, nei pressi di un’immaginaria New Orleans più che mai viva nelle menti di questi ragazzi. “Roachstomper” è il loro secondo album e riesce, nettamente, a smussare le asperità del precedente lavoro “Macho Metal”, portando la musica della band al livello successivo, sia per sound che per padronanza del songwriting, il quale fonde in modo particolarmente organico estremismi vari, parti di doom-sludge, eco di “Nola”, ricordi di Black Breath, motoseghe à la Entombed e rock’n’roll viscerale, dando vita ad un convincente e variegato metallo sudista concettualmente non molto dissimile da quello dei The Sign Of The Southern Cross, solo meno edulcorato e più personale. Ascoltare “Roachstomper” è un esperienza divertente, mai noiosa, dato che tutte le canzoni godono di vita propria e, pur mostrando una decisa coerenza compositiva, non si assomigliano mai troppo, dando vita a scenari di vario genere: se – in generale – si punta parecchio sul groove, ottenuto tanto con un suono bellamente compresso quanto con strutture quadrate e rocciose, rese di quando in quando più poderose da massicci rallentamenti, non manca affatto la volontà di sparare schegge velocissime e dritte come “Adolf Yeti”, sorta southern-thrash che potrebbe ricordare un poco gli Warbeast, oppure “Alaska Pipeline”, che gode di riff vagamente punk. Ovviamente i Carcharodon non si limitano solo a tale dualismo e ci propongono anche qualche “esperimento” come il blues vestito da zombie di “Chupacobra” o la rilettura in chiave southern dei Motorhead in “Marilyn Monrhoid” che, con la sua anima “scuoticulo”, viene accompagnata dalle atmosfere (quasi) rock-musical di “Pig Squeal Nation” o le suggestioni ZZ Top di “Burial In Whiskey Waves”, forse il pezzo più convenzionale dell’album, oltre che singolo guarnito di video e di cavalcatone melodico (non proprio “polveroso” nel risultato: diciamo più da “La Casa Nella Prateria”…non ce ne vogliano i Carcharodon!). Ulteriore attenzione richiamano due canzoni che per noi sono delle vere e proprie chicche: se “Beaumont, TX”, pur semplice, dipinge maladisposizione come solo potrebbe una versione narcotizzata di qualche brano da The Great Southern Trendkill, “Jumbo Squid” gode del riff più arrembante di tutto l’album, a metà tra un cazzotto e una pacca sulle spalle, per poi abbandonarsi a un blues speziato d’armonica. La chiusura di “Roachstomper” è affidata a “Voodoo Autopsy”, che rimescola le cose sentite finora in un ordine leggermente mutato da volontà ansiogene, e “The Sky Has No Limits”, proposta come “kolossal” del disco (o, almeno, così ci pare di intuire), visto il suo manifesto e muscoloso epos redneck, tanto muscoloso e tanto redneck da farci venire in mente dei Pantera che suonano “Eyes Of The South”. Non male, dunque, non male per niente: aggiungete inoltre, come ciliegina sulla torta, ritornelli sempre trainanti e non sarà difficile comprendere come quest’album, crescente di ascolto in ascolto, impressioni positivamente da subito. Volendo proprio muovere una critica (costruttiva, si spera!) potremmo dire che la musica è un po’ più controllata di quanto questo genere musicale richiederebbe, sicché non ci sarebbe dispiaciuta un’espressione più “sguaiata”, ma in fondo si tratta di piccolezze che non guastano proprio nulla. Forza, smettete di leggere e reperite quest’album!