6.0
- Band: CARNIFEX
- Durata: 01:03:49
- Disponibile dal: 03/09/2021
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Warner Bros
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Si può dire tutto ai Carnifex, ma non che manchino loro tenacia e spirito di resistenza. Tra i prime mover del circuito death-core affermatosi Oltreoceano grazie all’uso di MySpace, in compagnia di Whitechapel, Suicide Silence e dei Job for a Cowboy di “Doom”, i Nostri non sono mai riusciti a replicare i ‘botti’ dei suddetti colleghi, prima incappando in una serie di flop discografici e scioglimenti-lampo e poi, in tempi più recenti, venendo scavalcati in termini di appeal mediatico da vari esponenti della concorrenza (Thy Art Is Murder, Lorna Shore, ecc.). Una carriera tutt’altro che lineare e costante, quindi, accompagnata da una nomea di secondi della classe che avrebbe probabilmente mortificato il grosso dei gruppi in circolazione, e invece… E invece la band di San Diego è ancora qui, e a due anni di distanza dal precedente, gradevole “World War X” si appresta a rilasciare la sua ottava fatica sulla lunga distanza in un periodo particolarmente felice per certe sonorità.
Ma come suona “Graveside Confessions”? Diciamo subito che la strada percorsa è la medesima dell’ultimo paio di dischi, e si concretizza in un (corposo) pugno di brani intento a mescolare la tipica matrice death-core americana con le ormai collaudatissime sbandate symphonic black/death di origine europea, per oltre un’ora di musica destinata senza troppe difficoltà a soddisfare lo zoccolo duro dei fan di Scott Lewis e soci e – più in generale – del filone in oggetto. Un ‘more of the same’ condito da un’ulteriore crescita da un punto di vista tecnico, evidente negli scambi a tratti fluidissimi fra guitar work e sezione ritmica, e da episodi capaci di dispensare pesantezza e atmosfera in maniera più che decorosa, ma che non evita del tutto passaggi interlocutori, ridondanti o più semplicemente trascurabili, i quali validano ancora una volta la nostra premessa. Il quartetto non era un genio ieri e non è un genio oggi, e la scelta di cimentarsi in una tracklist tanto imponente, sotto questo punto di vista, non premia la sua scrittura ondivaga, capace sia di offrire pezzi efficaci e pimpanti (la titletrack, “Seven Souls”), sia di incorrere in composizioni prive di un’effettiva sostanza (“Countess of Perpetual Torment”, “Cold Dead Summer”).
Limiti che nel 2019 erano stati appunto celati da una durata complessiva abbordabilissima, e che oggi – al contrario – vengono esposti alla luce del sole limitando l’impatto dell’opera e di quello che avrebbe potuto essere il nostro giudizio. A conti fatti, si arriva a fine ascolto stanchi e distratti, al punto che nemmeno la cover di “Dead Bodies Everywhere” dei Korn o le nuove versioni di alcuni brani dell’esordio “Dead in My Arms” finiscono per essere registrate come dei veri e propri guizzi. Una constatazione che ci invita a consigliare “Graveside…” soltanto ai die-hard fan menzionati poco sopra, unico bacino d’utenza della formazione californiana.