8.0
- Band: CATTLE DECAPITATION
- Durata: 00:54:58
- Disponibile dal: 29/11/2019
- Etichetta:
- Metal Blade Records
- Distributore: Audioglobe
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Crescita costante. Ormai da un decennio, sembra essere questo il presupposto attorno cui ruota la carriera dei Cattle Decapitation. Crescita a livello di appeal sul pubblico e sulla critica, di carisma nell’interpretazione e – soprattutto – di elasticità di scrittura, per una proposta che può ragionevolmente fregiarsi del titolo di onnicomprensiva. Dai primi accenni di sperimentazione di “The Harvest Floor” all’euforico mix di stili di “The Anthropocene Extinction”, passando per l’exploit artistico di “Monolith of Inhumanity”, il percorso della band di San Diego ha saputo contraddistinguersi per un approccio spiccatamente ‘open-minded’, un sapiente amalgama di orecchiabilità e forza bruta, una vorace ricerca di nuovi registri espressivi. Giochi di parole che si riaffacciano, puntuali, anche nel discorso di questo attesissimo “Death Atlas”, opera che filtra gli spunti dei capitoli precedenti attraverso un’inedita spinta emozionale e una vena catchy mai così affinata e rilevante.
Nel 2019, bastano una manciata di secondi per identificare il suono dei Nostri da quello della smisurata concorrenza extreme metal, e non potrebbe essere altrimenti visto il livello di scioltezza e personalità raggiunto da questa raccolta di brani, colonna sonora perfetta per un mondo al collasso e per gli istanti immediatamente successivi a qualche disastro naturale.
Oltre a porre ulteriormente l’accento sugli spunti black che a partire dal suddetto “The Harvest…” hanno contribuito a farli spiccare tra la massa, i Cattle Decapitation odierni esaltano la componente melodica fino a renderla la spina dorsale di ogni episodio, lavorando sia in termini di scelte di produzione che – soprattutto – di coordinate strumentali e vocali per veicolare le meste atmosfere della tracklist, in una carrellata di soluzioni incredibilmente emotive e ricercate.
Muovendosi fra chorus impattanti e ultra memorizzabili, digressioni dal sapore malinconico e scorribande parossistiche in grado di mettere soggezione a diversi colleghi scandinavi, Travis Ryan e compagni alzano l’asticella del loro death/grind svelando una sensibilità che in pochi, fino a qualche tempo fa, credevano possibile, facendo sembrare semplicissimo ciò che in realtà è pressoché fuori dalla portata di chiunque (basti sentire la monumentale titletrack e il suo intro ambient “The Unerasable Past”).
Con le dovute proporzioni e differenze stilistiche, potremmo paragonare l’evoluzione ribadita da questi solchi a quella che vide protagonisti gli Strapping Young Lad subito dopo la pubblicazione di “City”, nell’ottica di un songwriting che, senza sacrificare nulla del proprio vigore, si fa malleabile e cangiante, portavoce di una visione drammatica del nostro presente e del nostro futuro. In definitiva, l’ennesima riprova del talento di questi musicisti, la cui capacità di affrancarsi da formule preconfezionate e di mettersi in discussione si traduce sempre in opere scritte col cuore.