
8.0
- Band: CATTLE DECAPITATION
- Durata: 00:52:34
- Disponibile dal: 12/05/2023
- Etichetta:
- Metal Blade Records
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È trascorso quasi un quarto di secolo dal raccapricciante esordio degli allora imberbi e semisconosciuti Cattle Decapitation. Era il 1999, e la band di San Diego riuscì a fare breccia nell’underground grazie all’impatto visivo e uditivo di un concept fortissimo, radicato nella tradizione death metal/grindcore più brutale e parossistica e ispirato a tematiche antiumane che, senza timori di smentite, contribuirono più della musica in sé all’affermazione iniziale del monicker.
Giovani, immaturi, ma già in quel momento inclini a migliorarsi e a non tirarsi indietro dalle sfide e dalle difficoltà della gavetta, i Nostri si fecero largo nel circuito estremo dei primi anni Duemila guidati da un entusiasmo e da una passione che, col senno di poi, possiamo dire non essere mai scemati, e che a partire dalla pubblicazione del sesto full-length “The Harvest Floor”, nel 2009, videro i suddetti elementi di contorno (copertine, testi, ecc.) ridimensionarsi in favore di un’espressività e di una ricerca sonora poi assurte a pilastri di tutte le opere successive.
“Monolith of Inhumanity”, “The Anthropocene Extinction” e “Death Atlas”, nel loro alzare continuamente l’asticella e nell’espandere i confini della proposta in territori emotivi, melodici e progressivi, hanno riscritto sia l’identità di Travis Ryan e compagni, sia la storia recente del genere, affinando uno stile pressoché inconfondibile e celebrandone di volta in volta la capacità di fondere con disinvoltura elementi apparentemente inconciliabili, da sbandate black a ritornelli simil-orecchiabili, da contrappunti ambient/cinematografici a commistioni heavy e -core, in una parabola di ingegno e sperimentazione sempre e comunque digeribilissima.
Oggi, dall’alto della vetta scalata, i Cattle Decapitation squadrano il percorso compiuto consapevoli del loro ruolo e della loro forza, licenziando un disco che, se è vero che non sorprende in senso stretto, ne restituisce la poetica apocalittica in modo così sentito e avvincente da risultare l’ennesimo centro di una seconda parte di carriera invidiabile; uno sguardo rassegnato, ma non per questo privo di vitalità, sulle tendenze autodistruttive e parassitarie della nostra specie.
Ecco quindi che “Terrasite”, rispetto al suo immediato predecessore, punta al ribasso in termini di contrasti stilistici, gimmick vocali e zone comfort da valicare, presentandosi come un album coeso, meno incline alla melodia e più vicino alla definizione ‘classica’ di death/grind, facendo di queste caratteristiche i suoi elementi distintivi e vincenti. Un lavoro in cui non sono i cosiddetti ‘effetti speciali’, bensì la schietta efficacia dei riff di chitarra e il loro concatenarsi al moto fluidissimo della sezione ritmica, a ritagliarsi una posizione privilegiata durante l’ascolto, in un processo di sintesi e asciugatura del songwriting che forse – dopo l’ambizione e lo sfarzo messi in mostra quattro anni fa – era anche l’unico percorribile dai Nostri per evitare confronti superflui e mettersi definitivamente alla prova come artisti.
In questo senso, il singolo “We Eat Our Young” funge da perfetta introduzione al discorso, non concedendo nulla alla timbrica pulita di Ryan e facendo piazza pulita della concorrenza ‘modern’ death metal con un mix ormai proverbiale di blast-beat e rallentamenti schiacciasassi, ma quanto detto si può applicare trasversalmente all’intera raccolta, la cui vena feroce e ‘straight to the point’ emerge anche negli episodi più inclini a mescolare le carte. Un incedere ultracompatto e rifinito che bypassa interludi di qualsiasi sorta (presenti in abbondanza nel platter del 2019) e che giocoforza – alzando il coefficiente di brutalità – esalta quando presenti i chorus epici e trascinanti, le digressioni malinconiche, le punteggiature atmosferiche, con il finale di “Solastalgia” (violenta e tecnica nella prima parte, trionfale e drammatica nella seconda) e “Just Another Body” (altra grande suite messa a segno dal quintetto, battezzata da tastiere ai limiti del symphonic black metal) a chiudere in crescendo la mesta narrazione della tracklist.
Nel 2023, insomma, i Cattle Decapitation sanno di non avere più nulla da dimostrare, che i tempi delle ostentazioni sono finiti e che oggi, semplicemente, può iniziare quello della spontaneità e della naturalezza. Un risultato ancora una volta esaltante e che invita al replay continuo, non deludendo le aspettative e ponendo seduta stante “Terrasite” sullo scranno dei grandi ritorni dell’anno. Il talento, come la vita in un’iconica battuta di “Jurassic Park”, vince sempre…