8.0
- Band: CAVE IN
- Durata: 00:35:42
- Disponibile dal: 24/05/2011
- Etichetta:
- Hydra Head
- Distributore: Goodfellas
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I Cave In sono gli unici esponenti di un (sotto)genere da loro stessi creato, e solo per il fatto di essere impavidamente e magicamente riusciti a fondere lo space rock con l’hardcore, la band si Boston dovrebbe essere un esempio, e motivo di invidia per la stragrande maggioranza delle band che cerca di fare qualcosa di buono con l’hardcore evoluto. I Cave In sono l’archetipo vivente della band completa e poliedrica, che da un lato non si ammoscia e non si perde minimamente per strada quando decide di cambiar rotta completamente, e che dall’altro mostra una spregiudicatezza e un coraggio mirevoli e fuori dal comune quando decide che è ora di provare cose diverse. La band di Boston ha sempre, ad ogni singola uscita, lasciato spiazzati e confusi, ma a lungo andare non ha mai deluso, ed è rimasta sempre una spanna davanti alle orecchie e ai cervelli di ascoltatori e critica di mezzo mondo, dalla quale ha ricevuto lodi sempre a scoppio super ritardato o critiche ritrattate anni dopo. La batosta dell’esperienza major dell’incompreso e magnifico "Antenna" spedì la band in un pericoloso limbo di frustrazione, minandone l’esistenza, finchè Aaron Turner non li convinse a tornare alla sua HydraHead evitando così la probabile estinzione di una band perennemente incompresa e sottovalutata. Seguirono il roccioso e trionfante ritorno all’hardcore chiamato “Perfect Pitch Black” del 2005 e lo stordente EP “Planets Of Old” del 2009, che mostrava segni inequivocabili di un nuovo e spaventoso slancio sonico fatto di una neo-psichedelia inferocita e profondamente intellettuale e sognante. “White Silence” riprende da dove quell’EP aveva lasciato ed è la somma di tutto ciò che i Cave In hanno coraggiosamente fatto scorrere nelle proprie vene in quasi vent’anni di salassi sonici al limite del conoscibile. L’album si apre con la bislacca e rumorosa intro simil-Jesus Lizard e post-fugaziana della title-track, e quando il muro di sciabolate hardcore spaziali e deformi della successiva “Serpents” arriva alle orecchie, stappa i timpani dal cranio come i bulloni dalle fiancate del Titanic a quattromila metri di profondità. Senza pietà, il pezzo afferra l’ascoltatore per i capelli, schiaffeggiandolo senza sosta per tre insopportabili minuti con ondate incessanti di materia statica lisergica, avvelenata e bruciante. Pura goduria sonica (auto)distruttiva. “Sing My Love” eviscera le melodie intrippanti e sature di rumore di “Deadbeat” degli A Place To Bury Strangers e le trapianta come un cancro dritte in “Last Light” dei Converge. In questo pezzo la voce di Brodsky (merce veramente rara nell’odierno paesaggio post hardcore) si eleva a vette di bellezza e perfezione difficili da immaginare, e le chitarre di Adam McGrath fanno pensare a un immaginario David Gilmour che continua a suonare “Welcome To The Machine” al triplo della velocità e con tutta l’amplificazione andata in corto che brucia, alzando fiamme di tensione statica incandescente per chilometri. “Vicious Circles” sembra “Kings Of Speed” degli Hawkwind suonata dagli Isis periodo “The Red Sea” con settecentomila pedali alzati a palla e poi gettati a friggere in un secchio d’acqua, e la successiva “Centered” è un anthem punk-hardcore squassante e deforme, che sembra “Caress” dei Drive Like Jehu lanciata in un accelleratore di particelle con Tompa Lindberg a dare manforte alla voci. Segue Lo sludge-core spaziale e industrialoide di “Summit Fever”. Praticamente una incomprensibile ballata sludge metal che ricorda in egual misura l’industrial rock annegato nel feedback degli Icarus Line e una improbabile fusione di esso con lo sludge-core monolitico dei Breach. Praticamente un demonio musicale che accarezza le orecchie con gli artigli. Il sangue sgorga, ma la sensazione di piacere rapisce. Le rimanenti tre canzoni fanno calare l’intensità per quanto riguarda la violenza metallica, ma non certo per quanto riguarda la qualità. “Heartbreakes, Earthquakes”, trascinata dalla voce assolutamente in crociera di Brodsky, da un chitarra acuscita schiavizzata dal feedback e da un lunapark insensato e psicotico di effetti e pedali usciti di senno, sembra “See Emily Play” come se fosse suonata dai Big Black. “Iron Decibels” ricorda il noise rock surreale e teatrale dei loro compagni di etichetta Oxbow, e “Reanimation” è un chiaro di luna sonico elettrificato ed onirico che fa di Brodsky un menestrello psiconauta perso in una dimensione parallela. Elliot Smith non è morto, sta in Norvegia e si è unito agli Ulver. Ora provate a dare un senso compiuto o qualche definizione convenzionale ad un album del genere. E’ impossibile. Tutto di questo album è volatile e inafferbaile, e cambia faccia continuamente in un continuum di generi e stili filtrati e distillati alla perfezione, e poi raccolti in uno scrigno di perfetta catarsi psichedelica e intelligentissima furia hardcore. Scrigno per il quale solo i Cave In hanno le chiavi. Tutto in questo album sfugge, sublima e schizza via più veloce della luce. L’unica cosa palpabile di questo album è il genio per niente velato di questa band post hardcore unica e stellare.