6.5
- Band: CELTIC FROST
- Durata: 01:08:43
- Disponibile dal: 29/05/2006
- Etichetta:
- Century Media Records
- Distributore: EMI
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“Monotheist” non è “Necronomicon” e nemmeno “Under Apollyon Sun”, i due pseudobiblia, o meglio pseudodischi, della carriera dei Celtic Frost. Annunciati e mai pubblicati, forse registrati, forse composti. Insomma, tanto per restare in tema, roba scomparsa negli abissi dei grandi antichi e mai più riemersa. “Monotheist” è il parto di una band rimasta sepolta per quasi quindici anni e tornata a comporre, registrare, finanche supportare dal vivo la propria musica per ragioni imperscrutabili (denaro? urgenza creativa? congiunzioni favorevoli?). Detto questo, sgomberato il campo da dubbi circa la provenienza dei brani contenuti sul nuovo disco dei Celtic Frost, si può passare a dissertare del qui ed ora, del parto di Tom G. Warrior anno Domini 2006. Il suono è pesante, plumbeo, compresso e per sessantotto minuti pare di trovarsi sotto un’incessante cascata di negatività ctonia, di chitarre ipnotiche e reiterate, di bassi ruggenti. “Progeny”, che apre le danze con quel “uh”, il death-grunt più famoso del mondo, praticamente una dichiarazione d’intenti, è l’apice del disco. L’andamento Hellhammeriano, pochi riffs ma (molto) buoni, è il marchio di fabbrica dei nuovi Celtic Frost. Così anche la successiva “Ground” poggia su basi spudoratamente minimali, su un’insistenza sulla nota, sempre la stessa, che induce angoscia. Sessantotto minuti sono tanti, e sembrano ancora di più di fronte a tanta introversione sonora, a tanto attaccamento nei confronti di un suono che sembra voler essere una vivisezione del doom; esplorato, masticato, rielaborato. In mezzo ci sono episodi zoppi, come “Drown In Ashes” e “Obscured”, tra loro praticamente indistinguibili, bislacchi tentativi di esplorare retaggi new wave qui ampiamente fuori contesto. Per il resto, “Monotheist” è un disco di proporzioni monolitiche, scuro e privo di appigli, difficile e sfiancante, sommamente personale e, per certi versi, fuori dal tempo. E’ un ritorno che non lascia indifferenti, ma che, forse, giudicheremmo con occhi meno clementi se non portasse quell’ingombrante nome in copertina.