7.5
- Band: CHELSEA WOLFE
- Durata: 43:40
- Disponibile dal: 13/09/2019
- Etichetta:
- Sargent House
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“I do not have a child / But I’m old enough to know some pain / And I’m hell bent on loving you / Women know what it is to endure“. Così si sente nella introduttiva “The Mother Road”, impregnata di sentori tutti americani da Route 66. Conoscere se stessi, quando si arriva ad un certo punto della propria vita. E della propria carriera. Ed è certamente il caso di riflettere, per la paladina di quel goth-rock figlio del post-metal, dell’oscurità di certa musica estrema, di certe mode da Roadburn Festival e di certo revival country-folk americano, su quello che è il suo status. Su quello che si pensa o si crede di poter dire con un nuovo lavoro. Sullo sperimentare o sul consolidare. Oppure tornare sui propri passi. Rivedere e riconsiderare quelle che sono le fondamenta del proprio essere, per rendere il presente più solido, forse.
Sembra si debba guardare con questa prospettiva il nuovo lavoro della californiana. Certo non corrono più i tempi -ancora giovanili e idealistici – del primo “The Grime And The Glow” (2010) o del gioiellino “Pain Is Beauty” (2013) e un ritorno alle sonorità semi-acustiche suona sicuramente dovuto, necessario e probabilmente anche figlio di una certa moda. Eppure la Wolfe ci sa fare. E il suo status non è certo capitato per caso. Sempre più vicina alla compagna d’etichetta Emma Ruth Rundle, la Wolfe tiene lontano le oppressive distorsioni sludge del buonissimo “Hiss Spun” e si accorge che per colpire nel segno basta una chitarra acustica, una bella voce e poco altro. Giusto un po’ di rumoristica, di pattern soffusi e un minimo di elettronica (ma giusto un filo) e si può ancora dire qualcosa con una manciata di belle canzoni tutte all’americana, cogliendo in pieno il fenomeno del periodo d’oro del cantautorato femminile.
Effettivamente le canzoni efficaci non mancano. Il blues decadente americano di “I’m Deranged For Rock’n’Roll” risulta uno dei punti più interessanti del nuovo lavoro, dove ancora una volta troviamo una consapevolezza matura, uno dei leitmotiv di questo sesto tassello discografico: “All these years / Have made me strong / 3 baptisms / For this soiled dove / Out of my head /The final high“. La desolazione americana poi passa attraverso la successiva e suadente “Be All Things”, altro brano scelto come singolo e che riscopre quel tocco plumbeo e oscuro di certe sonorità, che sembrano qui ritrovare le diramazioni ancestrali a cui la Wolfe fa di nuovo riferimento. I noise delle personalissime “Erde” e “Little Grave” vengono tenuti tenui ma riescono ancora a donare in queste formule piacevoli soluzioni che tengono alta la soglia dell’effetto ricercato ed autentico, senza scadere nel mero miagolio sofferente che – a volte – bussa sempre alle porte di album come questi.
La tradizione del cantautorato americano al femminile, di color tetro e spettrale, non si tinge di nuova linfa ma si compiace del proprio territorio. “Birth Of Violence” è una ripresa di quei colori, riscoperti nella solitudine della sua casa nella California del Nord, aiutati dal tocco di Ben Chisolm, che tiene il tutto lontano dal lo-fi e ricco di contributi che – seppur in sordina – amplificano il suono caldo della Taylor acustica della Wolfe. Senza essere di certo un fulmine a ciel sereno, il nuovo album della Wolfe si assume le responsabilità di essere se stesso e trova la sua giusta strada verso il pieno consenso. Senza grandi grida o effetti il songwriting della californiana riscopre se stessa e le strade desolate d’America, ora dalla sua finestra di casa. Con un occhio al presente e uno al passato.