8.0
- Band: CHEPANG
- Durata: 00:48:59
- Disponibile dal: 07/07/2023
- Etichetta:
- Selfmadegod Records
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Dopo il recente lancio del notevole “Coronet Juniper” dei Gridlink, il grindcore ci regala una nuova sorpresa con “Swatta” dei Chepang.
La band statunitense, formatasi nel 2016 con membri originari del Nepal ma stabilitisi negli Stati Uniti da oltre un decennio, si autodefinisce per questo ‘immigrindcore’: la loro musica è alimentata da una violenza viscerale che affronta la diffusa corruzione in Nepal, relegando gran parte della popolazione a condizioni degradanti, specialmente dopo il devastante terremoto del 2015.
In “Swatta”, si percepisce chiaramente questa esplosiva necessità di espressione, sia a livello politico che creativo: e se i Gridlink hanno confezionato una micidiale perla di diciannove minuti con il già citato “Coronet Juniper”, i Chepang alzano ulteriormente l’asticella, presentando un arsenale di distruzione di quasi cinquanta minuti e ventinove brani che spaziano dal puro grindcore a influenze jazz, death grind e persino drone-ambient.
I passaggi da un genere all’altro sono spesso repentini e inaspettati: ad esempio l’aggiunta del sassofono nelle tracce “Bid”, “Ba” e “Na” ci trasporta nel jazz, mentre il growl che occasionalmente emerge nell’album ci catapulta nel death-grind. In “Akanchya” e “Anyol”, il riverbero delle chitarre si fa più marcato, creando atmosfere eteree che si contrappongono al resto del progetto.
Eppure non si tratta soltanto di strumenti o tecniche differenti: l’album ribolle di collaborazioni con musicisti appartenenti a generi musicali assai disparati. Troviamo Colin Marston dei Gorguts al mix e alla chitarra in gran parte delle tracce più orientate verso il death metal, oppure Patrick Shiroishi, esponente del free jazz, ad aggiungere il sassofono nella mischia. A chi conosce gli Orthrelm sarà facile individuare poi Mick Barr, quindi la sua pazza vena di prog brutale in “DMT”. Decine di altri chitarristi e batteristi, provenienti da altrettante band grindcore, sembrano gareggiare per suonare con la massima aggressività.
Il merito principale di questo lavoro risiede nella capacità di tracciare una struttura all’interno di questo caos musicale: i titoli delle canzoni diventano progressivamente più brevi e criptici, mentre le sperimentazioni sonore si fanno sempre più estreme, quasi a descrivere la graduale perdita di controllo della band, sopraffatta dalla rabbia. Emergono chiaramente le influenze jazz e cybergrind, il ritmo si fa sempre più incalzante e il growl diventa ancor più cavernoso rispetto all’inizio.
Le ultime cinque tracce, intitolate con una singola lettera, sfidano ogni convenzione musicale, impiegando anche l’IA come strumento per raggiungere l’apice del caos e privare l’ascoltatore di qualsiasi sembianza di logica.
Nota di merito anche per la copertina, che incapsula perfettamente la sensazione di oppressione e aggressione dell’album, rappresentando le tre cause di sofferenza umana: l’ignoranza, l’avarizia e l’odio nella loro trasfigurazione animale.
In breve, “Swatta” non lascia spazio all’indifferenza o alla noia; sorprende per la capacità di reinventare il genere molteplici volte all’interno dello stesso album, oltre al coraggio di spingere l’acceleratore ai massimi livelli senza trascurare la cura tecnica e artistica.
Questo lavoro non mancherà di soddisfare le orecchie più desiderose di sonorità caustiche e coloro che cercano sperimentazione di alto livello in un genere musicale spesso mal compreso e in certi casi ridotto a un’incessante marea di rumore indistinguibile.