9.0
- Band: CHILDREN OF BODOM
- Durata: 00:38:10
- Disponibile dal: 26/04/1999
- Etichetta:
- Spinefarm
- Distributore: Audioglobe
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La rubrica de I Bellissimi nasce con l’intento di omaggiare quei dischi che, per un determinato motivo, non solo per quello prettamente qualitativo, sono stati in grado di oltrepassare l’asticella della normalità, assumendo di conseguenza l’appellativo che dà il nome a questa particolare sezione del nostro sito ed entrando di diritto tra la cerchia ristretta degli album per così dire ‘eletti’. Questa volta, però, il tributo fuoriesce dai solchi del vinile, abbracciando la fonte creativa del full-length in questione. Omaggio, riconoscimento, chiamatelo come vi pare: sta di fatto che queste righe vogliono rappresentare il nostro grazie ad uno dei personaggi più significativi del panorama metal degli ultimi vent’anni. Un virtuoso della chitarra, un frontman carismatico e selvaggio in grado, poco più che maggiorenne, di mettere in pista una band capace, nel giro di poco tempo, di balzare con merito agli onori della cronaca metallara.
Lui era Alexi Laiho, leader assoluto (fino al 2019) dei Children Of Bodom: finlandese, classe 1979, la cui morte (avvenuta a quanto sembra negli ultimi giorni del dicembre 2020) ha colpito non solo molti addetti ai lavori e colleghi, ma soprattutto un gran numero di quegli adolescenti che a fine millennio rimasero a dir poco estasiati nell’ascoltare l’aggressività melodica di “Something Wild”, il rosso debutto dei Bambini di Bodom. Una prima miccia esplosiva che riportava in copertina una figura usata ed abusata nel mondo metal ma che, per la band di Alexi e Jaska Raatikainen (batterista e co-fondatore del gruppo), diventò un marchio di fabbrica, un’autentica mascotte.
Ma fu con il secondo full-length che il quintetto di Espoo fece saltare il banco. Il Grim Reaper si tinse di verde, allargando le braccia quasi a dare il benvenuto all’ascoltatore presso le sponde del famigerato lago sanguinolento. Un’immagine-simbolo che bollò definitivamente tale album e di conseguenza il combo scandinavo. “Hatebreeder” permise ad Alexi e compagni di ritagliarsi uno spazio di rilievo tra le nuove leve dell’aggressive extreme metal, come rispose lo stesso Laiho a chi, nel lontano ’99, gli chiese quale fosse il genere proposto dai suoi Children. Una miscela di heavy, black e thrash dai tratti sinfonici ed operistici che, se in “Something Wild” erano semplicemente esplosi, con “Hatebreeder” presero una struttura ancor più definita ed armonizzata, dando vita ad un lavoro tanto impetuoso ed irruente quanto ricercato e, a suo modo, soave. Elementi sonori che andavano a braccetto con la passione del giovane Alexi per la musica classica: una devozione che torna prepotente anche in questo secondo lavoro, andando addirittura ad aprirne le danze in una veste per così dire cinematografica. “From now on, we are enemies, you and I“: sono queste, infatti, le parole che anticipano l’opener “Warheart”; una sentenza ripresa dal capolavoro di Milòs Forman “Amadeus” e lanciata per l’occasione dal veronese ed invidioso Salieri verso un giovane compositore di Salisburgo, un certo Mozart. Un incipit ansiogeno, quasi magico, utile a donare ulteriore mistero alla prima delle nove tracce previste. “Warheart” si presenta con tutte le caratteristiche tipiche della band finlandese, già sfoggiate nel disco d’esordio: i riff mozzafiato presentati dall’accoppiata Laiho-Kuoppala trovano il loro alter-ego fascinoso nelle tastiere di Janne ‘Warman’ Wirman; e sarà proprio questo connubio strumentale a decretare il successo di “Hatebreeder”. Linee melodiche su cui si staglia lo scream rabbioso di ‘Wildchild’ Laiho: una voce non certo particolare ma che, unita alla musica proposta, fece immediatamente breccia nei metalkid dell’epoca, i quali vedevano nel chitarrista scandinavo un portavoce delle proprie frustrazioni nei confronti della società. E come avvenne con “In The Shadows” (secondo pezzo di “Something Wild”), anche in questo caso il brano numero due di “Hatebreeder” si piazza tra i migliori del lotto: “Silent Night, Bodom Night” viaggia a mille seguendo la lama affilata della morte, tingendo di rosso le acque del lago di Bodom, prima che uno stacco di tastiere ci porti su ritmi più rocciosi ad anticipare un notevole assolo di stampo maideniano, sino a giungere al refrain finale furiosamente catchy. Scritta da Kimberly Goss, all’epoca fidanzata ed in futuro moglie di Laiho, “Silent Night, Bodom Night” diventò da subito un gettone importante nel corso dell’esibizioni live dei Children Of Bodom. E cosa dire della titletrack? Con i suoi continui e pregevoli cambi di ritmo si erge ad esempio totale delle qualità tecniche espresse dall’intero quintetto: capacità che trovarono in “Hatebreeder” (l’album), il loro apice creativo e realizzativo. E’ invece un intro alla “Alison Hell” degli Annihilator a dare il via alla maligna “Bed Of Razors”: dopo la furente rasoiata subita in precedenza, i toni rallentano regalandoci un episodio in cui è la melodia a farla da padrona, confermando la versatilità compositiva della band. Varietà d’intenti che trova l’ennesima dimostrazione con “Towards Dead End”: prima parte abbondante dedita alla velocità, in cui i giochi sopraffini tra chitarre e tastiere scorrono che è un piacere accompagnando l’ugola pungente di Alexi; e quando anche l’ultimo accordo sembra ormai essere assestato ecco un godurioso stacco heavy-power che chiama direttamente in causa i connazionali Stratovarius. E se con “Black Widow” e “Wrath Within” la parte rocciosa prende il sopravvento sulle altre forme stilistiche, con il secondo dei due che si fa preferire, è con il brano che porta il nome della band che abbiamo un nuovo salto di livello: “Children Of Bodom”, rilasciata come singolo l’anno precedente, è una scarica di riff sui quali si poggiano a meraviglia le armonie maledette di Laiho e Wirman, creando un autentico maleficio sinfonico di assoluto spessore. Ma la perla di “Hatebreeder” arriva proprio sul finale. Condita da un video ammaliante, in cui la prestazione della band si alternava ad alcune immagini di Laiho alle prese con un simpatico coltello, “Downfall” è la perfetta summa di cosa potessero fare i Children Of Bodom: mentre Wirman tiene in sottofondo una sorta di magia ancestrale, il resto della band si lancia in un ultimo assalto, quello decisivo. L’esempio sublime di come sinfonia ed aggressività potessero coesistere, creando un quadro emozionante e veemente allo stesso tempo.
Il disco verde dei Children Of Bodom era dunque stato portato a termine, dando così un forte scossone verso l’alto alla band finnica. Il tempo portò maturazione, cambi di formazione e scelte diverse anche dal punto di vista stilistico, decisioni che causarono anche qualche divisione all’interno dei sostenitori old-school. Una cosa però rimase e rimane assodata: la passione, la serietà e la caparbietà di Alexi Laiho, sino alla fine, sino agli ultimi giorni. Una lealtà nei confronti di sé stesso e degli altri che lo ha portato a compiere passi importanti, decisivi.
Sempre facile, a volte quasi scontato, costruire altari quando una persona, un artista in questo caso, ci lascia all’improvviso, così giovane soprattutto. Ma questa volta, almeno per chi scrive, è sembrato che non vi fosse alcun velo di ipocrisia di fronte a quanto accaduto: la sensazione, leggendo anche diversi commenti apparsi sui vari canali social subito dopo la notizia della sua scomparsa, è quella di aver perso un compagno di banco, un vecchio amico di scuola sul quale si poteva sempre fare affidamento. R.I.P., Alexi, e grazie.