7.5
- Band: CIRCUS MAXIMUS
- Durata: 00:56:24
- Disponibile dal: 03/18/2016
- Etichetta:
- Frontiers
Spotify:
Apple Music:
I Circus Maximus ci sono sempre piaciuti, lo ammettiamo, e di conseguenza abbiamo provato un certo piacere personale nello scoprire che ci erano stati assegnati come recensione: il precedente, validissimo, “Nine” è da ben quattro anni un nostro ascolto ricorrente, quindi una certa fame di musica nuova da parte del gruppo norvegese la sentivamo proprio. Come, immaginiamo, la sentivano anche molti altri fan, soprattutto considerando il sempre maggiore hype che si sta crea in tempi recenti attorno a band quali appunto i Circus Maximus, oppure gli Haken e i Leprous, tutte quelle formazioni cioè fautrici di un progressive metal di stampo però atipico, che prende le distanze dall’abusata matrice Dream Theater offrendo al suo posto diverse e interessanti aperture verso generi confinanti. Anche se non stiamo certo parlando di djent, è bene ricordarlo, è proprio in questo concetto di progressiva contaminazione che troviamo la lode nel percorso dei Circus Maximus: su alcuni passaggi di “Nine” si trovavano infatti già nel 2012 alcune avvisaglie del tentativo di inglobare nella propri pasta musicale anche elementi provenienti dall’hard rock o del metal alternativo, ma è proprio in questo “Havoc” che questo discorso raggiunge una sua virtuosa saturazione. “Havoc” è infatti definibile come progressive metal solo in senso lato; certo sopravvivono nel pentagramma dell’album sia una certa propensione al tecnicismo che un minutaggio piuttosto corposo,ma è indubbio che le sonorità, soprattutto nelle tastiere di Finbraten, guardino sovente in direzioni diverse. Percorrendo l’intero album si possono incontrare infatti residui o frammenti di molti generi musicali: se quindi è l’alternative metal a farla da padrone sui brani iniziali quali “The Weight” o “Highest Bitter”, già con la title track posta in terza posizione abbiamo qualche pesante flessioni su un hard rock più diretto ma sempre dai sentori modernisti. Il alto più radiofonico e prettamente melodico dei Nostri è rappresentato come ci si poteva aspettare dal bravo vocalist Eriksen, che su più passaggi (“After The Fire, “Remeber”) sembra essere più vicino al Bellamy dei Muse che non ai cantanti prog che si prendono di solito a ispirazione come LaBrie o Geddy Lee. Se a questa ricchezza di idee si aggiunge poi la ‘solita’ prestazione monumentale di Mats Haugen, perfettamente a fuoco su tutti gli assoli, tecnico o melodico che sia, e la frizzante sezione ritmica sorretta dal fratello Truls, troviamo che quest’album mostri in effetti pochi e nessun punto debole. Dopotutto, le canzoni non sono eccessivamente lunghe, e tutto è fruibile. La personalità che faceva capolino già in “Nine” non è per nulla rinnegata anzi ne esce rinforzata, ma allo stesso tempo di spazio per sentire qualcosa di nuovo, i cinque norvegesi ce ne hanno lasciato parecchio. Se ci aggiungiamo una produzione precisa e moderna al punto giusto… possiamo solo concludere che i Circus Maximus abbiano davvero centrato l’obiettivo un’altra volta.