9.5
- Band: CIRITH UNGOL
- Durata: 00:45:46
- Disponibile dal: 02/07/1984
- Etichetta:
- Enigma Records
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«Volete essere innovatori all’interno della scena metal? È semplice: salite sul palco vestiti normalmente anziché in un costume o con pantaloni di pelle e chiodo; reclutate un cantante che non è nemmeno riuscito a diplomarsi alla “Scuola delle limitazioni vocali di Vince Neil” e, infine, sappiate usare più di due corde sulla chitarra e, ancora più importante, siate in grado di fare qualcosa di originale utilizzando lo strumento. Un filo radicale, eh? Certo, ma in una scena metal piena di cliché, non è così scontato». Così scriveva Marc Shapiro parlando di un concerto dei Cirith Ungol del 17 luglio 1983 sul BAM, una rivista californiana specializzata in musica. Il trafiletto, raccolto dalla Metal Blade che nel 2017 ha ristampato “King Of The Dead” in una lussuosa versione in vinile per collezionisti, racchiude ciò di cui già ai tempi la stampa si era accorta in merito al quartetto di Ventura.
Quello che da molti è definito come il capolavoro della band è un disco radicale, in un momento in cui dopo il successo degli Iron Maiden con Dickinson alla voce ci si buttava tutti sulla melodia e l’heavy metal cominciava a prendersi una scena praticamente globale. Dove tante band decisero di virare su assoli melodici e ritornelli accattivanti, il quartetto con, oltre a Baker al microfono, Robert Garven alla batteria, il compianto Jerry Fogle alla chitarra e Michael “Flint” Vujea al basso, decise volutamente per un suono duro, doom, concreto e diretto il più possibile. «Welcome, to the brave new world!», la frase che apre “Atom Smasher”, indirizzata alla Guerra Fredda che ancora faceva tremare il mondo, è il primo segno dell’indurimento dalle ancora massicce influenze hard rock anni Settanta di “Frost And Fire”: questo disco è un viaggio nella distopia, nell’orrore e nel fantastico, da sempre tematiche cui tutti noi ascoltatori siamo affezionati. Rispetto all’autoproduzione del disco precedente, questa volta i nostri registrarono il disco da Jeff Cowan ai Goldmine Studio di Ventura, facendosi prestare i soldi dai genitori di Robert Garven, e firmando per una al momento semi-sconosciuta Enigma Records – risorta dalle ceneri della Leathür Records, quella che pubblicò il primo album dei Mötley Crüe – che li avrebbe portati al successo internazionale. Il risultato è che i Cirith Ungol fecero il botto, pur non essendo poi mai riusciti a elevarsi davvero sopra un sottobosco che inizierà a diventare sempre più frequentato, ma riconosciuti immediatamente per la loro originalità e il loro suono volutamente sempre più grezzo, marcio e sporco.
Come notavano Shapiro e gran parte della stampa dell’epoca, e come esce ancora oggi dai nostri stereo, qui stiamo parlando di quattro musicisti che hanno preso a piene mani dalle origini del nostro genere musicale preferito: un brodo primordiale di caos ancestrale derivato dalle canzoni più ‘marziali’ dei Black Sabbath, dal progressive e dall’hard rock più oscuri in assoluto, in controtendenza con quanto avveniva nelle major impegnate a rendere il suono del metal più dolce e melodico: pensiamo solo a “Master Of The Pit”, un pezzo di sette minuti dove la stridula voce di Baker ci accompagna in un rumoroso mondo di cappa e spada. La fascinazione per Elric di Melniboné, testimoniata sin dalla splendida copertina di Michael Whelan, faceva subito presagire che in un disco del genere nessuno avrebbe trovato salvezza o momenti particolarmente melodici: la durezza del genere ‘sword & sorcery’ si abbatte come un gigantesco maglio quando nelle nostre orecchie risuona la title-track con il ritornello più memorabile del quartetto di Ventura, e non si da assolutamente il tempo di riposare all’ascoltatore, perché dopo una intro acustica parte “Finger Of Scorn”, altro momento cadenzato ed estremamente doom, scritto da quello che all’epoca era l’ex chitarrista Greg Lindstrom, che fa pensare appunto al dito che ci viene puntato causando la fine di mondi e popoli. Dopo la “Toccata in D minore” tocca a “Cirith Ungol” chiudere il lavoro, la torre di fuoco di tolkeniana reminescenza, qui posta dalla band al centro dell’inferno: una apoteosi di ritmi lenti e voce stridula che accompagna l’ascoltatore al temine di un viaggio sullo Stige. Quella chitarra ronzante che sembra uscita da un megafono, il basso cupo e distortissimo, la batteria lenta e inesorabile come il tempo e la voce, che ancora oggi divide molti ascoltatori di metal, di Tim Baker, forgiarono quello che da alcuni è ritenuto il primo vero disco epic metal della storia, genere che poi verrà portato al successo commerciale da altre band. L’impatto che “King Of The Dead” ebbe ai tempi sulla scena metal, sul pubblico e sulla stampa, eccheggia ancora oggi in chiunque decida di dedicare i propri riff, la propria batteria e la propria voce a Elric, a Conan e a tutti quegli eroi che vivono in eterno tempi di guerra, fame e mostri nei loro racconti: sempre nella ristampa in vinile del 2017 ci sono ben due lettere di giornalisti tedeschi di Rock Hard e Metal Hammer che si attivarono per promuovere questo fulgido pezzo di metallo grezzo anche nel vecchio continente dopo che ricevettero le prime demo da parte della band stessa.
“King of the Dead” è una apoteosi dell’attitudine metal, della volontà ferrea e incrollabile di non piegarsi alle mode e di voler suonare duri e puri. I teenagers di oggi diranno che è un atteggiamento ‘da gatekeeper’, noi scriviamo che Tim, Rob e soci fecero quello che il metal dovrebbe sempre fare andando controcorrente, senza sollevare né polveroni né polemiche, permettendo ai suoi musicisti di esprimersi come meglio credono, creando un suono personale e immediatamente riconoscibile che diventerà la firma ad imperitura memoria dei Cirith Ungol: «Crown upon his head, King of The Dead!».