7.0
- Band: CLOAK
- Durata: 57:24
- Disponibile dal: 10/11/2017
- Etichetta:
- Season Of Mist
- Distributore: Audioglobe
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Odore di cripta, filamenti di polvere come suggestioni di incubi, orbite vuote di innumerevoli teschi accatastati, il pianoforte in lontananza: ecco lo scenario che intravediamo, illuminato dal tenuo chiarore di candele semiconsumate, quando le prime note dei Cloak risuonano dalle casse dello stereo. Il debut dei quattro di Atlanta, Georgia, è un vero e proprio grimorio di metal ‘annerito’ e sporcato quel tanto che basta di melodie settantiane per risultare un bocconcino prelibato per tutti i nostalgici di talune atmosfere sottilmente a metà tra il demoniaco e il terrore strisciante. In questo “To Venomous Depths” rimandi ora ai seminali Dissection, ora ai Fields Of Nephilim più cupi si rincorrono come spettri lungo tutte le nove tracce: se la sezione ritmica di Matt Scott al basso e Sean Bruneau dietro le pelli alterna momenti tiratississimi (“In The Darkness, The Path” è una sentita professione d’amore per la scuola di death metal svedese) a stacchi più cadenzati, come nell’iniziale “To Venomous Depths / Where No Light Shines”, le chitarre del duo Brigham/Taysom si inseriscono con maestria per arricchire il tutto con orecchiabili distorsioni ‘vintage’, corroborate da una produzione in linea con le atmosfere venefiche proposte dal gruppo (si ascolti l’intermezzo “Passage” e la successiva “Forever Burned” per averne un assaggio). La lunga suite “Deep Red”, posta a conclusione del’album, sembra incarnare tutte queste sfaccettature e ribadisce ancora una volta con vigore che per andare a scovare i quattro Nachzehrer dai capelli hippie bisogna andare a scavare nella parte più desolata del cimitero, quella in cui si respira più forte l’atmosfera di marcio e tensione tipica di molti film della scuola di Dario Argento (cui i Nostri chiaramente rendono omaggio). La sensazione che prepotentemente si fa strada nell’ascolto del disco, però, è quella che i Cloak ricalchino pedissequamente le orme dei cugini europei Tribulation (oramai ascesi al rango di ‘maestri dell’orrore’ nel genere) a scapito della propria personalità: tutto, dal suono delle suddette chitarre alla voce di Taysom (pari, per ruvidezza sussurrata e un po’ roca, proprio a quella di Johannes Andersson), passando per gli arabeschi ibridi tra hard rock e i dettami del black/death metal old-school, ricorda un po’ troppo gli spettrali autori dell’acclamato “The Formulas Of Death”. Questo, insieme ad una leggera prolissità – dieci minuti in meno avrebbero reso, a parere di chi scrive, l’ascolto più fruibile – penalizza in parte quello che poteva essere un debutto veramente succulento. Se non riuscite a far a meno di atmosfere macabre e death metal ve ne consigliamo caldamente l’ascolto; da parte nostra facciamo un applauso di incoraggiamento e li aspettiamo per il secondo disco, fiduciosi del fatto che per allora riusciranno a tirar fuori il loro personale, sulfureo miasma.