7.5
- Band: COFFINS
- Durata: 00:45:57
- Disponibile dal: 09/07/2013
- Etichetta:
- Relapse Records
- Distributore: Audioglobe
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Siamo dalle parti di Tokyo, ma se non lo avessimo saputo prima di ascoltare il disco avremmo scambiato il devastante “The Fleshland” per un altro nuovo lavoro degli Autopsy. Va sempre così quando ci si imbatte nei Coffins. Dietro nomi come Uchino, Ryo, Koreeda e Satoshi si cela una band assolutamente esplosiva, che restituisce il death metal alla sua missione più autenticamente animalesca e viscerale. Dopo aver ascoltato il nuovo platter non ci si stupisce del fatto che la band abbia finalmente trovato il supporto di una grande etichetta come la Relapse. Anni di gavetta nel più putrido underground hanno finalmente pagato: oggi i Coffins sono una realtà affermata, che nel suo genere teme pochi rivali. Come accennato, anche con questo lavoro i ragazzi giapponesi si genuflettono all’altare di Chris Reifert: quest’ultimo e i suoi Autopsy sono il primo punto di riferimento per riff, ritmiche e strutture. Poi vengono chiaramente i migliori Celtic Frost degli inizi, così come Winter e Grave, nella loro accezione più quadrata e ignorante. Siamo alle prese con una tracklist che alterna brani densi e soffocanti, che sembrano voler incanalare la straripante carica primitiva dei Nostri in schemi doomy più cinici e sprezzanti, ed episodi in cui invece la foga esecutiva della band è lasciata libera di far danni; canzoni dove si materializzano violenti dejavu causati da anni di ascolti di “Severed Survival”, corretti dalla palese rabbia di vivere in una nazione irreprensibile e rigida nei suoi valori morali in apparenza, ma che nel profondo è invece viziosa e corrotta come tante altre. Forse buddisti come molti connazionali, i Coffins lasciano però qui da parte la meditazione e l’espansione della mente, procedendo invece con l’infierire sugli strumenti nella maniera più brutale possibile. “The Fleshland” è proprio un loro tipico album: volgare nella forma, genuino e coinvolgente nei contenuti, a partire dall’efficacissimo guitar-work. Vedetelo pure come un “lato B” di “The Headless Ritual” (del resto i due dischi escono praticamente in contemporanea) e godetene a più non posso.