7.0
- Band: CONCRETE AGE
- Durata: 00:42:04
- Disponibile dal: 04/04/2024
- Etichetta:
- Soundage Productions
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Torna l’ethnic metal di una delle band più multiformi del panorama metal, che a dispetto di una quindicina d’anni di attività e ben nove dischi con questo, non sembra aver raccolto il seguito che meriterebbe. Non sappiamo se il fatto di essere troppo eclettici per essere racchiusi in un solo segmento possa essere un limite, ma certamente il risultato del melting pot musico-culturale di questa band internazionale (tuttavia basata a Londra) e intermusicale è all’altezza di un progetto piuttosto ambizioso.
Perché è vero che spesso creare un appellativo per il proprio genere musicale può essere un modo per mascherare appetiti più profondi dei mezzi che si hanno per saziarli, ma nel caso dei Concrete Age il termine ‘ethnic’ sembra davvero appropriato, e anche questa nuova fatica sembra confermare la bontà del progetto.
Certo, ci vuole una mente aperta: canti aulici, strumenti semisconosciuti (la zurma, il baglama), strutture thrash-death (richiamanti Sepultura o i Testament post-2000) che si inseriscono in passaggi folk, quando non power metal (eco dei Blind Guardian epoca “A Night At The Opera”, fino a raggiungere reminiscenze sinfoniche sebbene ben celate).
In un calderone di così complessa fattura potrebbe essere facile perdersi alla prima disattenzione, ed ecco invece che una qualità certamente alta nella composizione di brani efficaci e ben delineati nel diventare pugnanti si stampano facilmente nei nostri cervelli dopo pochi ascolti.
Se le fondamenta sono extreme metal quasi anni Novanta, le aperture propriamente etniche sono melodiche, trasognanti, ci fanno immaginare paesi lontani, quando veniamo poi riportati giù da un blast beat che ci tira per il bavero e ci rimette al nostro posto. Sicuramente sono i passaggi più etnici quelli che fanno la differenza qui, visto che la parte più ‘tradizionale’ si rifà ad un thrash death che poco aggiunge a quanto già scritto molto meglio da altri prima dei Concrete Age, ed ecco che ci si ritrova ad un’ideale festa popolare tra fuochi e lanterne, con brani come “Cossack’s Pride”, senza che la componente estrema venga intaccata.
Che sia la mistica tribalità dell’opener “Raida Rada” (che sicuramente inconsapevolmente ha un certo che di “La Mia Banda Suona Il Rock”), l’efficacia dell’ottima “Mestizo”, il pesante andamento di “Kara Kol”, l’incedere del disco, così corposo e pregno, è felice e stupefacente, non ci si annoia e anzi si resta piuttosto sorpresi dalla facilità con cui inserimenti folk si fanno voler bene anche non amando del tutto violini e flauti nel nostro metallo quotidiano.
Insomma, un altro centro per questo progetto prolifico e ispirato. Ascolto consigliato ai palati più curiosi e open-minded.