8.5
- Band: CONJURER
- Durata: 00:51:15
- Disponibile dal: 01/07/2022
- Etichetta:
- Nuclear Blast
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Sembra sia arrivato il momento di fare un bel balzo in avanti per la compagine formata da Brady Deeprose e soci; un balzo avanti, che, per meglio dire, si è già compiuto, visto lo stacco che questo nuovo lavoro, “Páthos”, marca nei confronti del già ottimo predecessore, “Mire”. L’impressione è che da qui a qualche tempo, molte più persone sapranno chi sono i Conjurer: merito anche, probabilmente, del passaggio a Nuclear Blast (un bel salto per un secondo disco), ma forse da attribuire, prima ancora che a etichetta o disco in sé, all’attitudine pervasiva degli inglesi, che hanno cercato sin dalla loro fondazione, di essere un po’ dappertutto, finendo a suonare in festival e tour che hanno toccato anche le nostre coordinate; tour piccoli, se vogliamo, ma considerando che l’opera prima è uscita nel 2018, e che di mezzo c’è stata una pandemia e quattro anni senza pubblicazioni, non male, se questo è il risultato ad oggi. Veniamo dunque a “Páthos”: cinquanta minuti, otto brani, quasi nessuna correlazione col disco precedente. Non esageriamo: che la band sia la stessa di “Mire” non viene da dubitarne: l’impronta del riffing, l’afflato umorale, un certo pessimismo a far di fondo ai colori delle composizioni.
Tuttavia, laddove “Mire” giocava a inserire decine di riff pazzi e incastrati l’uno sull’altro, qua si gioca direttamente un altro sport: i generi si mescolano forsennatamente, c’è il metal estremo venato di black, si veleggia tuttavia su basi hardcore, post-rock, post-metal a tutto tondo, mathrock, death metal; si alternano sfuriate punk hardcore a romantiche aperture con voce femminile, che guardano da vicino ai Cult Of Luna più efficaci delle ultime prove, ripartenze quasi thrash, attimi trasognanti intinti di violenza nichilista. Ci si districa tra riff acidi su partiture complicatissime di batteria e tristi arie di placido accompagnamento, riuscendo nella complessa arte di suonare convincenti e stupire assieme. Non si ‘provano’ soluzioni, su “Páthos”, ma si creano, e forse è qui che sta la sua forza e il vero sintomo di una maturità tangibile, rispetto a “Mire”: se nel debut album si percepiva l’energia espressiva di una band che veniva da anni di sala prove, qui percepiamo un lavoro in cui tutti i riff che ci si porta dietro dalla prima prova in garage sono esauriti nel disco precedente, bisogna metter giù testa e ripartire da zero; è quello che di solito porta al fallimento gruppi che esplodono con un primo album fenomenale, sul quale magari si è lavorato dieci anni, e un secondo o terzo album così così, dove le idee sono già finite. Ecco, qui avviene il contrario. Se “Mire” era eccezionale proprio per il suo sapore di vissuto, “Páthos” mostra, in brani come “Basilisk”, “All You Will Remember”, “In Your Wake”, la conclusiva, struggente “Cracks In The Pyre”, ma onestamente in un po’ tutta la sua durata, una sua eccezionalità per essere stato effettivamente scritto per essere così. O almeno è quello che sembra mostrarci. In definitiva: da non perdere.