7.0
- Band: CONJURETH
- Durata: 00:38:04
- Disponibile dal: 23/01/2023
- Etichetta:
- Memento Mori
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Prosegue senza sosta la carriera dei Conjureth, di ritorno con un nuovo album a meno di un anno e mezzo dalla pubblicazione del debut “Majestic Dissolve”. Sinora i death metaller americani hanno mantenuto ritmi serrati non soltanto nella musica, ma anche nelle pubblicazioni, rilasciando due demo nel 2020, il suddetto primo full-length sul finire del 2021 e ora questo “The Parasitic Chambers” a inizio 2023, come se l’indole selvaggia alla base della loro proposta facesse da fondamento anche in tutti gli altri aspetti legati alla band. Con questa nuova opera il gruppo insiste sulla direzione intrapresa con i lavori precedenti, confermando tutto sommato le fonti di ispirazione, ma spingendo la musica su toni ulteriormente velenosi e parossistici. Mentre sul debut era più evidente l’accostamento ad una certa attitudine old school in chiave blasfema (à la Deicide), compresa l’enfasi dei crescendo tanto orecchiabili quanto un po’ caciaroni, in questo nuovo disco la formazione californiana ha optato per un suono più brutale, avendo evidentemente acquisito ulteriore dimestichezza con i propri mezzi e una maggiore preparazione tecnica. I brani di “The Parasitic Chambers” sono basati su una feroce successione di riff, all’interno dei quali delle fugaci intuizioni melodiche si inerpicano costantemente, trasportando l’ascoltatore di turno in arie che spaziano tra contesti prettamente anni Novanta, in odore dei suddetti Deicide o anche dei primissimi Monstrosity, e altri dove emerge quella frenesia accostabile a realtà maggiormente contemporanee, come ad esempio gli Ascended Dead o anche gli Antropofagus di “M.O.R.T.E.”. Fa eccezione la conclusiva “The Unworshipped II”, traccia che, proprio come l’originale “The Unworshipped” (contenuta sull’esordio), adotta un andamento più compassato, lasciando emergere il bagaglio death-doom del cantante/chitarrista Wayne Sarantopoulos, musicista già attivo in Encoffination e Father Befouled, tra i tanti.
Animato da un lodevole slancio anche in sede di produzione, questo secondo atto esalta le abilità tecniche e di impatto della collaudata line-up in gioco; i riflettori costantemente puntati sui movimenti delle chitarre celebrano la vasta gamma di influenze di cui gode il quartetto di San Diego, anche se resta l’impressione che, nel suo rapido incedere, la tracklist non riesca sempre a fornire delle vere hit che al termine della fruizione rimangano a riecheggiare nella testa. Tutto ciò comunque non può scalfire la buona impressione destata da un’esperienza di ascolto genuinamente intensa, presentata, tra l’altro, da uno dei migliori artwork visti negli ultimi tempi.