6.5
- Band: CHELSEA WOLFE , CONVERGE
- Durata: 00:55:30
- Disponibile dal: 19/11/2021
- Etichetta:
- Deathwish Inc.
- Epitaph
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Che il fenomeno della (post)metal band che collabora con una icona della musica heavy femminile sia ormai cosa quasi trendy sembra ormai chiaro. Che il Roadburn Festival abbia contribuito, coi suoi ‘special set’ a favorire questo melting pot di situazioni è un altro dato abbastanza certo. Abbiamo infatti avuto, sul palco di Tilburg, giusto per citarne alcuni, Cult Of Luna con Julie Christmas, i Thou con Emma Ruth Rundle, The Body & Big Brave e, proprio qualche anno fa, la sessione dei Converge con Chelsea Wolfe chiamata “Blood Moon” (resa possibile da un certo curatore di nome Steve Von Till). Certo è che, proprio in quell’edizione del 2016, i Converge presentavano il loro lato più ‘soft’ con la paladina californiana dello sludge odierno, associandoci però la performance, il giorno dopo, anche di “Jane Doe” in tutta la sua interezza. Le due facce della stessa medaglia, a quanto pare. E tutto funzionò bene.
Eccoci dunque arrivati, cinque anni e una pandemia dopo, a ritrovarci per le mani la manifestazione discografica di quella collaborazione. Qui, a differenza della ripresa live di pezzi vecchi di quella sessione live, c’è del materiale inedito vero e proprio, che rappresenta un qualcosa di molto significativo: un passo netto dal passato a, forse, un intero futuro.
Alla fine del 2019 Jacob Bannon, Nate Newton, Kurt Ballou e Ben Koller si sono riuniti con la Wolfe, Ben Chisolm e Stephen Brodsky per alcune sessioni ai God City Studios di Ballou a Salem, nel Massachusetts, senza il patrono Von Till. Erano previste più sessioni per il 2020, ma la pandemia globale li ha costretti a finire l’album a distanza. “Bloodmoon: I” è un’opera corale, dunque, proprio per impostazione e sembra naturale che l’ormai spettro collaborativo dei Cave In e la coppia Chisholm/Wolfe mettessero tutte proprie tonalità nate da una base solida che era il repertorio Converge. Un’opera rock, dunque, di fatto. Già, proprio come suona: con tutti i meriti e i demeriti del caso e con tutta la difficoltà di un conseguente parere critico che possa essere univoco.
La prima faccia della medaglia, la più immediata, è il fatto che “Bloodmoon: I” mette a dura prova la concezione che il nome del nome Converge porta con sé, tutta la sua portata storica, tutto il suo impeto, tutta una certa prevedibilità che si può associare ad un monicker così – ormai – importante. I fan di lunga data saranno sicuramente offesi da una ripetitività ossessiva e crepuscolare del timbro della Wolfe, che sembra appesantire, o addirittura impoverire, insieme ad una prevedibilità piuttosto pedissequa, l’efficacia di Bannon e soci, seppur poco brillanti nel variare ‘la solita solfa’. Secondo lato della medaglia, però, come lato più meditato, l’ormai matura band di “Jane Doe” ha probabilmente ancora qualcosa da dire di personale, autentico e sentito, e la violenza hardcore caratterizzante di vent’anni deve probabilmente passare il testimone ad una più meditata sortita sonora, che preveda forse una nuova atmosfera specifica. Ne era prova, d’altronde, la prova dei Wear Your Wounds e le ormai infinite collaborazioni con uno dei producer più prolifici e ricercati degli ultimi tempi, Kurt Ballou. Ecco dunque le carte in tavola, la moneta che gira, il Giano bifronte che ormai il nome Converge identifica. “Blood Moon: I” è tutto questo, con tutto il suo lato negativo e tutto il suo lato positivo. E, di fronte alle oltre occasioni precedentemente configurate, Thou e Cult Of Luna, qui sembra che una certa efficacia sia, d’altra parte, innegabile. Senza scomodare, naturalmente, la collaborazione che salta sempre in mente in ambito post-metal (in tempi non sospetti) tra Jarboe e i Neurosis…
Ballou è una sicurezza e sbagliare una produzione, ormai, per lui, sarebbe un’impresa. In cuffia l’album suona perfetto, la spazialità annichilente, l’atmosfera avvolgente e i momenti più heavy schiaccianti (il suono di basso di Newton, ancora una volta, vincente). Anche l’amalgama delle varie anime dei progetti coinvolti escono piuttosto bene in certi momenti e l’effetto generale, seppur inizialmente straniante per i motivi suddetti è comunque efficace. E forse l’unico problema è la proprio la parte compositiva, che soffre molto spesso di una prevedibilità piuttosto pesante (“Flower Moon”, “Failure Forever”, ), arroccandosi su uno sludge atmosferico iperdilatato e con pochi spunti di classe extraordinaria. I momenti interessanti ci sono (gli innesti timbrici di “Viscera Of Men”, l’ispirata mastodoniana “Tongues Playing Dead” ) ma non riescono a reggere il peso di una certa ridondanza che non fa decollare emotivamente il disco come davvero potrebbe. E come, sicuramente, si vorrebbe facesse in maniera maggiore.
La Wolfe non brilla quasi mai, affievolendosi spesso in momenti come “Coil” e “Lord Of Liars”, prevedibile per chi abbia sentito almeno un suo pezzo degli ultimi dieci anni con Chisholm, soprattutto quando le cose vengono bene come nella seppur prevedibile post-rockeggiante “Crimson Stone”, in cui le personalità di tutti i vocalist emergono nella loro versione più amalgamata, ben inserita in lyrics non rubate semplicemente al panorama ‘post’ degli ultimi anni (“Compass rose / Pricking you / Bleed a map of stars / Battle wounds / Blood we drew / Busy making scars / Mess with it / Confess to it / Fate already knows / Tracing us / Embracing us / Where a flower grows”). Sembra infatti che in molto di “Bloodmoon: I” ci sia quasi una forzatura nell’innestare sempre questo decadentismo darkeggiante, che non suona tanto di malessere quanto più sembra furbescamente impostato nelle premesse. Non ci sono quelle sortite chitarristiche tipiche di una “Rust On The Gates Of Heaven” dei cugini Wear Your Wounds, così come, naturalmente, non c’è neanche il peso degli ultimi Converge di “Trigger” dal seppur non del tutto riuscito “Dusk In Us”, anche se ci sarebbero state davvero a pennello. Certo, la portata seventies di “Scorpion Sting” è convincente, amalgamando le diramazioni più psichedeliche che sanno dire ancora qualcosa con una voce come quella della Wolfe, e quando Bannon vuole dire la sua ci riesce ancora bene, ma a conti fatti non basta per reggere il tutto fino in fondo. Quando l’amalgama funziona si è pure emozionati e intrigati: Brodsky, Bannon e la Wolfe si innescano in momenti che sembrano quasi perfezione, la band, quando si muove libera davvero, arriva a chiarire alcuni dubbi, ma dopo un’ora la sensazione è che manchi ancora qualcosa per far decollare il lavoro. Suoni e progetto suonano tutto sommato affascinanti, avvicinandosi ad un pubblico amante di tutte le sonorità del genere, ma da questi personaggi non possiamo aspettarci che il massimo, e qui, ancora, non ci siamo del tutto.
Altresì può essere vero che la direzione sia davvero quella giusta, seppur a discapito delle grandi urla dell’hardcore. A conti fatti, per molti, si tratterà infatti di una delle più importanti uscite dell’anno, così come una di quelle che avrebbero potuto dire molto di più. A chi, in fondo, dare davvero torto?