9.0
- Band: CORONER
- Durata: 00:38:54
- Disponibile dal: 01/08/1988
- Etichetta:
- Noise Records
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Tra le band eternamente considerate sottovalutate, bravissime e di nicchia, autrici di capolavori del metal ma ‘difficili’, poco malleabili e fatalmente adorate solo da determinate frange del pubblico, i Coroner godono sicuramente di una posizione particolare. Quasi elitaria, già all’interno di una categoria intellettualmente nobile, assai meno se guardiamo ai favori del mercato. Nonostante quella celebrazione postuma e, nel loro caso, attuale, dovuta ai tanti live messi assieme dalla reunion del 2010 ad oggi. La leggenda dei Coroner nasce solo e soltanto dalla musica, gronda di atmosfere e angolature uniche, incasellandosi in un mondo a parte. La radice comune è quella di Celtic Frost e Samael, una Svizzera che ha saputo esprimere in campo extreme metal una numerosità di band non altissima, accomunate da un approccio originale alla materia, un saper esprimere concetti diversi dalle masse, interpretare suoni metallici con tono avanguardistico e concretezza ferale.
Da sempre contrassegnati dalla formula del power-trio, i Coroner fanno perno sul mostruoso talento chitarristico di Tommy T. Baron, i plumbei e multiformi giri di basso di Ron Royce (anche cantante) e lo stile altrettanto peculiare dietro i tamburi di Marquis Marky (nell’incarnazione odierna sostituito da Diego Rapacchietti). Attraverso cinque album, con un sesto ora finalmente in lavorazione (si spera in arrivo nel 2023), il trio svizzero ha compiuto un’evoluzione costante e coerente all’interno e fuori dal thrash, modellando un’identità fredda, ostile, aliena e sperimentale, stando a debita distanza dal grosso dei dogmi del genere. Poca velocità, una finezza strumentale tagliente ed esibita senza alcun sfarzo, un caleidoscopio di ritmi spezzettati inusuali per il settore, l’incastrarsi dei singoli strumenti in un’emulsione non riproducibile altrove. Un altro dato non banale è quello che i Coroner sono stati una compagine matura e compiuta già agli inizi, con quel “R.I.P.” (1987) che sta tranquillamente tra i classici del thrash e si dimostra scevro di ingenuità o aspetti naif tipici degli esordi discografici. La prolificità di quegli anni mette i brividi, cinque album in sei anni, e allora già nel 1988 scocca l’ora del secondo disco, “Punishment For Decadence”, che prende molto dell’esordio e lo porta su un piano superiore, nell’esaltazione degli aspetti melodici e nell’efficacia dei chorus, delineando probabilmente la tracklist più ricca di hit della carriera degli svizzeri.
È l’esuberanza chitarristica, incatalogabile e sfrenata di Baron a plasmare il carattere della tracklist, con sortite soliste improvvise, rapide, dalla musicalità accentuata; ne abbiamo puntualmente una prova con “Absorbed” e “Masked Jackal”, entrambe tese, intensissime e attraversate da incroci strumentali che lasciano interdetti, perché ancora oggi possiedono qualcosa di speciale e stupefacente. La fuga di chitarra solista a cavallo del terzo minuto di “Masked Jackal”, col basso a disegnare traiettorie strambe e la batteria a colpire in modo altrettanto originale, sarebbe lo spot perfetto per far capire l’unicità della band. La quale non lesina in parentesi catchy, col refrain di “Masked Jackal” ad assumere un climax trionfale, quando viene scandito nel finale contornato da rumori di una finta folla plaudente. La strumentale “Arc-Lite” permette al variopinto estro strumentale di sfogarsi in tutta la sua arguta magnificenza, introducendo a un’altra galleria di costruzioni thrash intense e velenose. Emerge una spettrale ombrosità nelle atmosfere, che si permeano di un’oscurità arcana nelle piccole pause concesse dal turbine chitarristico; c’è del feeling hard rock a permeare i solismi più diluiti, a smorzare la spigolosità dell’insieme. “Skeleton On Your Shoulder” e “Sudden Fall” sanno alternare i colpi, lacerare con accelerazioni brucianti, fermarsi un poco a dare respiro in parentesi dal sapore sci-fi e malinconico, quindi riprendere il discorso sotto una differente angolatura. La musica dei Coroner si muove sciolta tra tanti piccoli cambi di tempo, con accenni mosh a romperne la complessità e concedere adeguato spazio anche al semplice intrattenimento.
Il talento lo si scorge pure nella capacità di sintesi del trio, all’interno di minutaggi contenuti trovano spazio una miriade di idee, ognuna espressa compiutamente, senza che affiori la sensazione di aver stipato troppa ‘roba’ in confini angusti. L’ultima parte di tracklist si mantiene su livelli altissimi, difficile scegliere cosa sia meglio tra “Shadow Of A Dream Lost”, “The New Breed” o “Voyage To Eternity”: è più questione di rimanere colpiti da un determinato passaggio, da uno stacco che lascia più sconcertati degli altri, e ce ne sono di alto profilo in ognuna di queste. In chiusura, una cover apparentemente stramba, quella di “Purple Haze” di Jimi Hendrix, neanche chissà quanto stravolta dalla band: il sintomo dell’apertura mentale dei musicisti e dei loro gusti assai ampi in ambito rock. Un aspetto andato ovviamente a riflettersi sull’impronta sonora, un unicum nel panorama metal internazionale oggi come allora. I Coroner, al pari di pochi altri, rimangono una formazione ‘avanti’, di quelle che non diventeranno mai un puro oggetto vintage, quanto un’espressione pulsante di cosa voglia dire suonare musica innovativa, coraggiosa e immortale.