8.0
- Band: CORROSION OF CONFORMITY
- Durata: 00:52:54
- Disponibile dal: 12/01/2018
- Etichetta:
- Nuclear Blast
- Distributore: Warner Bros
Spotify:
Apple Music:
Il temporaneo allontanamento dalla band di Pepper Keenan è durato, senza quasi che ce ne rendessimo conto, quasi dieci anni; il resto della band, nel frattempo, non ha mai parlato di separazione e ha anzi accolto più volte in sede live il biondo chitarrista, scegliendo di tornare senza rammarico o titubanze alle sonorità di “Animosity” e a quel passato hardcore/crossover che li aveva resi celebri a metà degli anni Ottanta. A parere di chi vi scrive, i due album e l’EP proposti in questi anni dal terzetto rimanente erano lavori più che dignitosi, sicuramente più ispirati dello stanco “In The Arms Of God”, ultimo lavoro con Pepper in seno alla band, ma è certo che rivedere riunita la line-up che ci ha donato “Deliverance” e “Wiseblood” crea ben altre aspettative; fortunatamente tutt’altro che deluse. “No Cross No Crown” è infatti un comeback di altissima qualità, privo di momenti di indecisione, in cui la formazione classica della band mostra di saper portare indietro l’orologio quanto alla qualità dell’esito, senza scimmiottarsi biecamente. I loro elementi di forza classici ci sono tutti, dai potenziali – o effettivi – singoli, come “Cast The First Stone”, il controtempo di “Wolf Named Crow” o la cadenzatissima “Old Disaster”, che mostra come Pepper Keeenan possa ancora, a buona ragione, essere considerato una delle migliori chitarre ritmiche in circolazione; fino alla splendida “Little Man”, che tra il riff quasi stoner e la linea vocale accattivante si candida a diventare un loro pezzo forte in sede live. C’è spazio per tutti i membri per mettersi in bella mostra, pur nel quadro di un album corale: dall’intensità ritmica di Reed Mulin su pezzi come “The Luddite”, con Woody Weatherman che impreziosisce molti brani coi suoi assoli fluenti e affascinanti, fino alla potenza del basso di Mike Dean che regge ottimamente tutto il lavoro. La coesione dell’album viene resa ancora più forte dagli intermezzi acustici, a cui del resto i COC ci hanno abituati, che rimandano direttamente ai grandi album degli anni Settanta, e ai Black Sabbath in particolare: “No Cross” è cupa e dilatata, “Matre’s Diem” viene retta da un bell’arpeggio (sulla falsariga di “Fluff”) mentre “Sacred Isolation” aggiunge effetti e riverberi, confermando l’amore per Tony Iommi & co. Ancora, “E.L.M.”, “Forgive Me” o la trasognata “Nothing Left To Say” sono la perfetta espressione di quel southern rock rivisto attraverso gli occhi degli anni Novanta (o ormai Duemila e passa), mentre la titletrack ha una cadenza che è figlia spuria di “Electric Funeral” (e fanno nuovamente capolino i Sabbath), ma con personalità: un modo perfetto per rifiatare prima del gran finale affidato ad “A Quest To Believe”, dove emerge la loro anima più spaccona, in un mirabile equilibrio tra una linea vocale scanzonata e il sound che cola grasso per camion. Siamo solo a gennaio, ma con questo lavoro i Corrosion Of Conformity si candidano da subito ad essere tra i protagonisti di rilievo di questa annata musicale.